Noi come cittadini, noi come popolo

Il popolo mai sbaglia. 

L'ha detto Papa Francesco la settimana scorsa in aereo, mentre rientrava dalle Filippine . Anche se parlava a braccio non era una frase buttata lì, non era riflessione improvvisata. Il popolo, per lui,  è sicuramente un concetto di approfondimento sedimentato e rielaborato...
Noi come cittadini, noi come popolo
è il discorso che l'allora cardinal Bergoglio fece a Buones Aires nel 2010, in occasione del bicentenario dell'indipendenza. In Italia è stato pubblicato in un libro Jaca Book del 2013. E' un testo interessantissimo e che contiene molto di ciò che poi si ritrova nella Evangelii Gaudium (in cui, dicono che popolo compaia 164 volte).

Ma, cosa si intende con il termine popolo?
La categoria popolo è ambigua. non per povertà ma per eccesso di ricchezza. Da un lato infatti può indicare il popolo (nazione); dall'altra può indicare le classi e i settori sociali popolari. La Copeal lo intese soprattutto nella prima accezione, a partire  dall'unità plurale di una cultura comune radicata in una storia comune e proiettata verso un bene comune condiviso. 
A spiegarlo è Padre Scannone in un articolo per Civiltà Cattolica e ripreso anche in una relazione
La teologia del pueblo. Una prospettiva argentina tenuta a Roma a fine marzo 2014.

La teologia del pueblo è una delle 4 correnti della teologia della liberazione e si sviluppa in Argentina. Come tutta l'esperienza della teologia della liberazione si caratterizza per il porre l'opzione preferenziale per i poveri come punto di partenza e luogo ermeneutico. Si caratterizza per il privilegiare un'analisi storico-culturale a quella socio-strutturale e, in base alla convinzione della superiorità della realtà all'idea, esprime una critica delle ideologie, sia di stampo liberale che marxista e delle categorie di comprensione e strategie di azione che vi corrispondono.

E proprio in quanto esperienza imbevuta della realtà latinoamericana è profondamente incarnata e inculturata. Ed è profondamente politica. La riflessione culmina sempre in vocazione politica, nella chiamata a costruire con altri un popolo-nazionale, un'esperienza di vita in comune attorno a valori e principi, a una storia, a costumi, lingua, fede, cause e sogni condivisi...  Il progetto politico deve avere come autore un soggetto storico che sia il popolo e la sua cultura, non una classe, una parte, un gruppo, un'élite. 

Popolo è una categoria storica e mitica. Non è un fatto automatico. Si tratta di un processo. Farsi popolo.  Popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole ed unita in vista di un obiettivo o un progetto comune.  La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nell'ambito di un popolo in cammino.  

Ma anche dal punto di vista dei contenuti per il Bergoglio cardinale il progetto politico ha connotati precisi: una definizione di sviluppo che includa tutte le persone in tutte le loro dimensioni (cosa su cui è più facile mettersi d'accordo in una fase di espansione che in clima di ristrettezza). Un progetto di sviluppo che privilegi la lotta contro la diseguaglianza e la povertà. 

Il processo di costruzione (integrazione) del popolo si fonda sull'idea della persona sociale che attraversa il passaggio da abitante e cittadino e da cittadino ad appartenente ad un popolo. Il tutto orientato al bene comune. Cittadino viene dal latino citatorium. Il cittadino è il convocato, il chiamato al bene comune. Cittadino non è il soggetto preso individualmente come lo presentavano i liberali classici, né un gruppo di persone indistinte, ciò che in termini filosofici si definisce unità di accumulazione. Si tratta di persone convocate a creare un'unione che tende al bene comune. Essere cittadini significa essere convocati per una scelta, chiamati ad una lotta, lotta di appartenenza ad una società e ad un popolo. Lotta per smettere di essere mucchio, di essere gente massificata, per essere persone, per essere società, per essere popolo.  

Ma, chi convoca? La realtà, non l'idea. E nemmeno la parola (con la minuscola).  Perché la realtà è. L'idea si elabora, si induce. Non c'è autonomia tra idea (parola) e realtà. Non c'è subalternità della realtà all'idea. I nominalismi non convocano mai. Tutt'al più classificano. Ciò che convoca è la realtà illuminata dal ragionamento, dall'idea e dalla loro percezione intuitiva.

L'unità è superiore al conflitto, ma il conflitto esiste e la teologia del popolo non lo ignora. Riconosce la realtà dell'antipopolo (che, pur appartenendo al popolo, si pone contro di esso), del conflitto e della lotta per la giustizia. Non assume la lotta di classe come principio di comprensione della società e della storia (se ci fermiamo alla conflittualità della congiuntura perdiamo il senso dell'unità). Ma assegna al conflitto un posto rilevante nel processo di sviluppo. Bisogna farsi carico del conflitto, bisogna viverlo. I conflitti non possono essere ignorati, ma non si deve nemmeno restarne intrappolati o pensare di trasformarli nella chiave del progresso.  Si tratta di  immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell'anello di una catena, in uno sviluppo. 

Il tutto è superiore alla parte. Il modello è il poliedro. Il poliedro è l'unione di tutte le parzialità, che nell'unità mantiene l'originalità delle singole parzialità. Il tutto del poliedro non è il tutto sferico. Lo sferico non è superiore alla parte, la annulla. Si assiste alla riduzione del bene comune al bene particolare, si cerca una bontà che non essendo affiancata dalla verità e dalla bellezza, finisce per diventare bene privato, riservato solo a sé o al proprio gruppo. Una sfida per il cittadino, quindi, è salvaguardare questa unione di bontà, verità e bellezza, senza lacerazioni, in vista di un'esperienza di popolo, di un noi come popolo. 


Il tempo è superiore allo spazio. L'abbiamo tutti letto e citato nell'Evangelii Gaudium. Ma c'era già tutto qui: nell'attività civile, nell'attività politica, nell'attività sociale, è il tempo che governa gli spazi, che li illumina e li trasforma in anelli di una catena, di un processo. uno dei peccati che a volte si riscontrano nell'attività socio politica sta nel privilegiare gli spazi di potere rispetto al tempo dei processi. 

Di fronte a questo, la diagnosi di inefficacia della politica non può che essere legata alla lontananza tra governanti e popolo. La diagnosi del divorzio tra elite e popolo figura nella maggior parte dei lavori di analisi della nostra evoluzione storica. Ma continuiamo a dimenticarla.  La nostra politica spesso non si è messa al servizio del bene comune. Non ha saputo, non ha voluto o non ha potuto mettere limiti, contrappesi, equilibri al capitale per sradicare le diseguaglianza e la povertà che sono i flagelli più gravi di questo momento storico. Su questo argomento non ci sono posizioni ufficiali e opposizione, c'è solo una sconfitta collettiva.  

Padre Pepe (prete impegnato nelle periferie di Buenos Aires) riassume così il rapporto con l'allora Cardinal Bergoglio: "Ascoltava le nostre proposte e quando vedeva che stavamo lottando per qualcosa per cui valeva la pena, che aveva a che fare con le nostre convinzioni ci diceva

Se lo vedete, cominciate

E forse il primo passo per farsi popolo sta proprio lì: intravedere non individualmente quale lotta sostenere,  riconoscere il qualcosa per cui vale la pena lottare, quello che davvero a che fare con le nostre convinzioni e con un bene realmente comune.  














Di internet e di a cosa servono le chiappe...


Della prima edizione del Cluetrain Manifesto avevo parlato in  La progettazione sociale può creare nuovo lavoro?

Era quella che iniziava con: 
I mercati sono conversazioni. I mercati sono fatti di esseri umani, non di segmenti demografici. Le conversazioni tra esseri umani suonano umane. E si svolgono con voce umana.
E dichiarava che:
Le aziende che parlano il linguaggio dei ciarlatani già oggi non stanno più parlando a nessuno. Se le aziende pensano che i loro mercati online siano gli stessi che guardavano le loro pubblicità in televisione, si stanno prendendo in giro da sole. Le aziende che non capiscono che i loro mercati sono ormai una rete tra singoli individui, sempre più intelligenti e coinvolti, stanno perdendo la loro migliore occasione. Le aziende possono ora comunicare direttamente con i loro mercati. Se non lo capiscono, potrebbe essere la loro ultima occasione. Le aziende devono capire che i loro mercati ridono spesso. Di loro. Le aziende dovrebbero rilassarsi e prendersi meno sul serio. Hanno bisogno di un po’ di senso dell’umorismo. Avere senso dell’umorismo non significa mettere le barzellette nel sito web aziendale. Piuttosto, avere dei valori, un po’ di umiltà, parlar chiaro e avere un onesto punto di vista.
Era il 1999. Ecco ora la seconda edizione. E' (di nuovo) una lista di tesi (che in questo caso si chiamano indizi). La prima lista era di 95. Questa di 121. Su Linkiesta.it l'edizione integrale in italiano. Ok, nessun seguito viene bene come il primo. Però anche qui  ci sono piste interessanti:

C'è il dato poetico (suggerito da Luisa Carrada - Il mestiere di scrivere):
Ogni link, da parte di una persona che ha qualcosa da dire, è un atto di generosità e altruismo, che chiede ai lettori di abbandonare la pagina per guardare come appare il mondo agli occhi di qualcun altro. 
Il mondo si offre davanti a noi come un buffet, eppure continuiamo a mangiare bistecca e patate, agnello e hummus, pesce e riso, o vattelappesca.
C’è così tanta più musica nel mondo.
C'è il tentativo di rispondere alla domanda di fondo... ma... alla fine... cosa è Internet? Su Pagina99  David Weinberger (uno degli autori del Manifesto) ne parla come di 


uno spazio sociale in cui le persone possono parlare con la propria voce, di ciò che a loro interessa ed è importante per loro, connettendosi con altri con gli stessi interessi. 
Internet, come la gravità, è indiscriminata nella sua attrazione. Ci mette insieme, il giusto e l'ingiusto allo stesso modo. 
Il Web è un gigantesco, semieterno regno di oggetti esplorabili nelle loro fitte interconnessioni. (Se suona familiare, è perché anche il mondo è così). 
I politici devono ora spiegare le loro posizioni ben oltre il vecchio volantino elettorale ciclostilato.  
C'è l'idea di tribù. Del come si aggregano le persone (e se non fosse solo in internet? Se fosse qualcosa di cui tenere conto in generale?) 
Terreni condivisi generano tribù. La solida terra del Mondo ha tenuto distanti le tribù, permettendo loro di sviluppare incredibili diversità. Esultate! Le tribù hanno dato vita al Noi contro Loro e alla guerra. Esultate? Mica tanto. 
Su Internet, la distanza tra le tribù parte da zero. 
Apparentemente, essere capaci di trovarci l’un l’altro interessanti non è così semplice come sembra.
C'è la libertà (presente ed apparente) 
Le pagine web sono connessione. Le app sono controllo. 
Se lasciamo il web per un mondo di app, perdiamo i beni comuni che stavamo costruendo assieme. 
Ogni nuova pagina rende il Web più grande. Ogni nuovo link rende il Web più ricco. Ogni nuova app ci dà qualcosa da fare sull’autobus. 
Se Facebook è la vostra esperienza della Rete, allora vi sono stati messi addosso degli occhiali da un’azienda che ha concordato con i suoi azionisti di impedirvi di toglierli.
E c'è la privacy
Con una probabilità che si avvicina all'assoluta certezza, ci pentiremo di non aver fatto di più per proteggere i dati dalle mani dei nostri governi e dai signori delle corporazioni.  
Il web ha a malapena superato la sua adolescenza. Ci troviamo all'inizio, non alla fine, della storia della privacy.  
Potremo comprendere che cosa vuol dire privato solo quando avremo capito cosa vuol dire sociale. Abbiamo appena iniziato a reinventare il concetto.  
E non poteva mancare il gran finale:

Certo, Internet non ha risolto tutti i problemi del mondo. Ecco perché l'Onnipotente ci ha fatto dono delle chiappe: per farcele alzare dalla sedia.  
   

Cercare di capire




#Iosonocharlie è fortissimo perché la reazione è la paura per noi stessi.  Abbiamo sentito di essere stati colpiti noi, in casa nostra. E la paura è stata così forte da far superare la presa di distanza che ci sarebbe stata nei confronti di uno stile dissacrante come quello usato da Charlie. La reazione emotiva nei confronti di ciò che accade in Nigeria o altrove non sarà mai la stessa cosa. Anche se i numeri dei morti sono enormi, anche se l'(ab)uso di tre bambine come bombe è oltre ogni limite del concepibile come umano. Non ci fa onore, ma è così. La reazione di fronte ad una violenza che ci colpisce è diversa dalla reazione di fronte ad una violenza che colpisce altri. Le vittime di Parigi non sono le prime vittime. Non è scoppiata ora la guerra, c'era già la guerra, eravamo già in guerra
"solo che finora il campo di battaglia era geograficamente lontano, in Mali, in Afghanistan. Quindi ci siamo illusi che gli estremisti contro cui stavamo combattendo non avrebbe mai potuto colpirci. Oggi sappiamo che non è vero" (Pennac).  

#iosonocharlie non è solidarietà con altri, è soprattutto per noi stessi e per non sentirci soli con la nostra paura.
#iosonoahmed è il secondo punto di vista, serve per completare il quadro e avere prospettiva tridimensionale.

Io non sono Charlie. Io sono Ahmen, il poliziotto ucciso.
Charlie ridicolizzava la mia fede e la mia cultura
ed io sono morto per difendere il suo diritto a farlo. 


#iosonojuif è perché a Parigi sono stati uccisi 4 ebrei e non è stata una coincidenza. E poi...


La vera ragione per cui sono andato più volte a parlare con Levi è questa: Levi racconta la «distruzione degli altri», e questa distruzione a me pareva già compresa in ogni sistema per cui chi ha la verità ritiene massimo interesse degli altri lasciarsi convertire a quella verità, essendo la non assimilazione un danno infinitamente maggiore della morte stessa. Io, cristiano, andando da Levi andavo a Canossa. Siamo stati dentro a quel sistema. In pieno. Ne siamo usciti a fatica. Ma molte parti del mondo ci sono ancora dentro. (Camon)

On est toujours le juif de quelqu'un», anche un arabo può essere un "juif" (Camon)
 

Le religioni, tutte, senza eccezione, non serviranno mai per avvicinare e riconciliare gli uomini e, al contrario, sono state e continuano a essere causa di sofferenze inenarrabili, di stragi, di mostruose violenze fisiche e spirituali che costituiscono uno dei più tenebrosi capitoli della misera storia umana (Saramago).



Io non credo sia così. Ma non basta crederlo. Serve dimostrarlo. Oggi credo che dovremmo andare a fondo a questa domanda.  


Postilla: Sopra a tutto, per me, resta il bisogno di capire.

C''è il tema, primario, del rifiuto della violenza. Ma non basta.

C'è la libertà di espressione ma anche il rispetto delle diverse sensibilità.
C'è il rapporto tra fede (ogni fede) e politica e convivenza civile.
C'è una enorme ed insoluta questione sociale fatta di diseguaglianze, ingiustizie...
C'è il tema delle migrazioni e la necessità di prendere atto che non basta più dire che le migrazioni sono un fenomeno ineliminabile (e lo sono), che sono utili (e lo sono) e che si può convivere (e si può). Serve rendersi conto che i modelli di integrazione che abbiamo sotto mano sono abbastanza fallimentari. E che serve cercare di costruire qualcosa che possa funzionare.
E poi la globalizzazione, il ruolo dell'economia, il commercio delle armi, il tema delle periferie, la spinta generazionale... e persino il crollo delle ideologie (con l'impressione che non tutti i luoghi accettino il vuoto che si è generato e che in parte questo vuoto si stia riempiendo d'altro).

Cerco spunti, chiavi di lettura, interpretazioni. Per questo.... lista, sparsa ed incompleta, di cose utili a cercare il filo... E sono grata a chi mi segnala altro... 


Voi potete fare la differenza il discorso del primo ministro norvegese dopo la strage di Utoya con 76 persone uccise da un estremista di destra.

Se mi capitasse di venire ucciso il testamento spirituale di Padre Christian de Cherge, ucciso con altri 6 monaci sequestrati il 27 marzo 1996 in Algeria e decapitati dal Gruppo Islamico Armato.
Non in mio nome Della scrittrice italosomala Igiaba Scego
Io non sono in guerra intervento alla manifestazione di Milano di Sumaya Abdel Qader, nata a Perugia, figlia di giordano-palestinesi, vive a Milano da 14 anni.
Io non mi dissocio di Karim Metref, nato in Algeria, educatore e formatore in educazione alla pace, dal 1998 in Italia, a Torino.
Lettera aperta al mondo musulmano  di Abdennour Bidar (1971), di madre francese convertita al sufismo, professore di filosofia all’Università di Nizza. 
Rossanda "Vecchio o giovane che sia il tizio che maneggia la famosa Ibm, il suo schema è veterocomunismo puro. Cui innesta una conclusione che invece veterocomunista non è, la guerriglia".
Nui musulmani della periferia e la nostra voglia di Isis Un'intervista a chi è tornato a combattere. 
Umorismo yiddish Tre barzellette yiddish e la tesi del ridicolo come arma per sminuire l'autorità, per svelare la realtà o per aprire la mente.  

Cambiamo tutto (o almeno qualcosa)


Ok, il titolo del libro è un po' enfatico e anche il tono generale rischia (ai non avvezzi al genere) di apparire un po' forzato.  Però io in Cambiamo tutto di Riccardo Luna ci ho ri-trovato riflessioni interessanti e (cosa più importante) una serie di esperienze che mettevano in pratica le riflessioni.

Il concetto base del libro, forse, ruota attorno al concetto di opportunità. Nulla è dato. Nulla è solo da attendere. Le opportunità capitano ma bisogna riconoscerle e coglierle. Un po' il contrario dell'immagine del murales qui a fianco, insomma. Per avere cambiamento non si può sedersi e chiederlo all'angolo della strada. Serve mettersi in moto.

Perché se vuoi imparare una cosa il modo migliore è iniziare a farla. 

Ma cos'è l'innovazione? L'innovazione è quella cosa che accade quando le idee si accoppiano (when  ideas have sex). Beh... intrigante, no?

E chi sono gli innovatori sociali? Sono i famosi giocatori a somma diversa da zero: il loro successo non dipende dal fallimento degli altri, ma semmai il contrario. Sono idealisti ma anche concreti. Non sono mai soli, perché fanno rete come pochi altri. Sono pazzi? Forse si, ma sanno benissimo che mai come oggi le soluzioni dipendono sopratutto da noi, dai nostri comportamenti collettivi.

Molto del mondo classico del no profit e del terzo settore sottoscriverebbe queste definizioni. Eppure non si può sovrapporre il no profit con gli innovatori sociali. Perché? Cosa distingue i due mondi?

Gli abitanti del no profit e delle grandi organizzazioni tradizionali sono militanti, attivisti (aderenti ad un movimento, partito o sindacato impegnati in opera di propaganda). Magari la definizione  non è perfetta, ma l'impostazione con cui funzionano partiti, sindacati o associazioni e movimenti classici è abbastanza questo: ti chiedo di aderire e quindi (eventualmente) di mobilitarti in base alle idee che il partito, il sindacato, l'associazione sceglie di sostenere. Nulla di male. Anzi, si potrebbe dire che la parte debole oggi sia proprio la richiesta di mobilitazione.

E  chi sono invece gli  innovatori sociali secondo Riccardo Luna? Sono i fattivisti (i makers). Persone convinte che da un complesso di tecnologie sempre meno costose e sempre più facili da usare, alla portata di chiunque si possa trarne un vantaggio per tutti. Persone che vogliono partire da da dati di fatto, dai numeri di un problema, per creare nuovi fatti e non delle parole. Persone che hanno idee e provano a metterle in pratica. Perché chi vuol cambiare può cambiare. E quindi cominciano andando a vedere l'effetto che fa provare a cambiare le cose, piccole cose concrete, senza prima chiedere il permesso.  Senza aspettare che lo Stato risolva tutti i problemi. Senza aspettare che il mercato trovi miracolosamente un equilibrio vrtuoso perché abbiamo visto che non c'è nessun equilibrio se i ricchi diventano sempre più ricchi. Senza aspettare niente e nessuno.

Già, ma si potrà dire, questo porta all'individualismo e al pragmatismo senza visione. Ognuno la sua idea e tutto solo centrato sul fare. I militanti lotta(va)no per un'ideale. Per qualcosa di più grande, per le generazioni future. I fattivisti cercano tutto e subito. E ognun per sé.

Può essere. E in parte lo è. Ma a guardarla senza pregiudizi la cultura digitale (che è il quadro ideologico di riferimento degli innovatori) è fatta di valori in cui anche molti attivisti e militanti potrebbero ritrovarsi senza troppe difficoltà, anzi...

- Che la collaborazione con gli altri è il presupposto per fare presto e bene.
- Che la condivisione non è solo un metodo di lavoro ma anche un obiettivo: creare opportunità strumenti e spazi per un'economia di condivisione.
- Che attraverso il fare concreto si possa cambiare il modo di fare politica, ovvero di essere cittadini facendo rete e avendo come obiettivo il bene comune. 

Mettersi insieme non è solo giusto, è utile. Fare per cambiare l'economia, per cambiare la politica. Non è poi così pragmatico e senza visione. No?

Il punto forse è che nel quadro ideologico della cultura digitale, appunto, valgono i dati, i fatti, non le dichiarazioni. La trasparenza è un valore come strumento che permette di controllare di persona. Non c'è più bisogno di delegare qualcuno e poi fidarsi. Si accede ai dati, li si filtra, si mettono in fila per vedere se è vero e si condividono con gli altri le conclusioni. E si è convinti che sia anche in questo modo che crescono le democrazie.

E vale la partecipazione. Libertà è partecipazione lo cantava già Gaber nel 1972. La partecipazione è indispensabile per la democrazia. Nessuno può pensare davvero ad un paese governato senza partecipazione. Neppure ad un paese governato via web dove vige "la dittatura degli attivi". Non sarà il popolo del web a governarci semplicemente perché il popolo del web non esiste, è una semplificazione giornalistica lontana dalla realtà. Sarà piuttosto il popolo, anche attraverso il web, ad aiutare chi ci governa a farlo meglio.

Ma la partecipazione non è solo ciò che passa attraverso il web. La partecipazione è fatta di due dimensioni: essere parte e prendere parte. Nelle organizzazioni tradizionali è stato enfatizzato il primo aspetto (le tessere, le regole...) nelle nuove organizzazioni si enfatizza il secondo aspetto (cosa porto di mio, quanto conta ed è richiesto e serve ed ha effetti sulle decisioni il mio contributo).

Perché il motto di alcune grande imprese è No matter who you are, most of the smartest people work for someone else che porta a non accontentarsi di quel che si ha e ha cercare di identificare e reclutare le persone migliori ovunque esse siano. E si può declinare anche all'interno dell'organizzazione stessa come Non importa chi sei tu, le persone migliori sono sempre altre (e tu hai bisogno di loro). 

E se partecipare in politica è un prender parte che è davvero mio, in prima persona, liberamente deciso e perseguito (Sartori) e non conta come partecipazione politica quella di professione, quella di colui che vive di e per la politica (Weber) forse il nodo di crisi per le organizzazioni tradizionali risiede qui. Nell'incrocio tra trasparenza (cioè la possibilità di mostrare concretamente la coerenza tra parole e fatti, tra dichiarazioni e comportamenti) e partecipazione (cioè l'organizzazione di un sistema che valorizzi e stimoli la reale e concreta partecipazione di ciascuno).

Ma (Riccado Luna questo non lo dice espressamente eppure a me pare la logica conseguenza) per fare questo serve investire sulla diversità e serve talento e pratica nella gestione costruttiva dei conflitti sani. I conflitti sulle idee. Serve la convinzione che esprimere pareri discordanti e discutere e mettere in dubbio un'idea non sia un tradimento, ma la forma più alta di collaborazione.

Vale all'interno delle organizzazioni. Potrebbe valere per far incontrare (con beneficio di entrambe le parti, secondo me) il mondo del no profit tradizionale con il mondo dell'innovazione sociale. 

Lo dice in un modo fantastico Margaret Hefferman in questa conferenza (in inglese con sottotitoli in italiano in particolare dal minuto 4.55 al minuto 10.42). Chi può lo ascolti, che fa tutto un altro effetto. Io ne riporto qui solo qualche stralcio tradotto:


5:21
Qui il link per chi non visualizza il plug in
Cosa richiede quel tipo di conflitto costruttivo? Prima di tutto è necessario trovare persone che sono molto diverse da noi. Significa che dobbiamo resistere alla forza neurobiologica, che significa che preferiamo di gran lunga le persone come noi, e significa che dobbiamo andare alla ricerca di persone con una formazione diversa, di discipline diverse, con modi di pensare diversi ed esperienze diverse, e trovare il modo di entrare in contatto con loro. Richiede molta pazienza e molta energia. E più ci penso, più credo che sia veramente una forma di amore. Perché non si investe tutta quell'energia e quel tempo se non per qualcosa cui si tiene davvero. Significa anche che dobbiamo essere preparati a cambiare idea. 

5:57Come pensano le organizzazioni? Per lo più non lo fanno. E non perché non vogliano, proprio perché non possono.E non possono perché le persone all'interno hanno troppa paura dei conflitti. Significa che le organizzazioni per lo più non riescono a pensare insieme. E significa che la gente come noi, che gestisce organizzazioni fallisce nel tirarne fuori il meglio. 
7:Come sviluppiamo le capacità di cui abbiamo bisogno? Perché ci vuole talento e anche pratica.Se non vogliamo avere paura del conflitto, dobbiamo vederlo come un modo di pensare. e dobbiamo diventare bravi a gestirlo. 
Di recente, ho lavorato con un dirigente di un'azienda di apparecchiature mediche molto preoccupato dell'apparecchio su cui stava lavorando. Pensava che fosse troppo complicato e aveva paura di danneggiare i pazienti che cercava di aiutare. Ma quando si è guardato intorno nella sua organizzazione, nessuno sembrava preoccuparsene.  Dopotutto, forse sapevano qualcosa che lui non sapeva. Forse sarebbe sembrato stupido. Ma ha continuato a preoccuparsi, e si preoccupava così tanto che è arrivato al punto di pensare che l'unica cosa che poteva fare era lasciare il lavoro che amava.
9:21Alla fine Joe ha trovato un modo di esprimere le sue preoccupazioni e quello che è successo dopo è quello che capita quasi sempre in questa situazione. Si è scoperto che tutti avevano le stesse domande e gli stessi dubbi. Certo, ci sono stati molti conflitti e molti dibattiti e discussioni, ma ciò ha permesso a tutti intorno al tavolo di essere creativi, di risolvere il problema e cambiare l'apparecchio.
9:56Joe era la persona che di solito viene vista come uno spione, eccetto che era assolutamente fedele all'organizzazione e alle nobili intenzioni che quell'organizzazione seguiva. Ma aveva talmente paura dei conflitti, finché finalmente ha avuto più paura del silenzio. E quando ha osato parlare, ha scoperto molto di più dentro di sé e molto di più nel sistema di quanto potesse immaginare.  













Quel filo di umanità


I volontari #nonsonoangeli. Sono persone che fanno scelte.

Per lo più persone normali che fanno scelte normali. 

Perché, diciamocelo, occuparsi e preoccuparsi gli uni degli altri, indignarsi e mettersi in moto di fronte ad un'ingiustizia, fermarsi di fronte al bisogno... sono scelte normali. Se vogliamo essere esseri umani. Se vogliamo #restareumani.

Quello che non è umano, che non è normale, è passare oltre di fronte al bisogno, restare immobili davanti all'ingiustizia, fregarsene gli uni degli altri.

Però a volte i volontari fanno scelte anormali. A volte nell'occuparsi e preoccuparsi degli altri, nell'indignarsi e mettersi in moto di fronte all'ingiustizia, nel fermarsi e mobilitarsi di fronte al bisogno... ci mettono qualcosa di "anormale".

Anormale in termini di passione, tempo, energie. Perché ci sono volontari che finiscono per far ruotare tutto attorno alla scelta volontaria, anche senza che questo diventi un lavoro o porti ad un ricavo economico.

Anormale in termini di destinatari. Perché ci sono volontari che riescono a scegliere come destinatari della propria azione persone particolarmente "scomode". Gente che magari oltre ad essere vittima è anche colpevole.

Anormale in termini di rischio. Perché per compiere la propria azione volontaria mettono a rischio la propria salute od incolumità.

E' un po' paradossale. Perché fingiamo di pensare che il mondo si divida in due categorie: i volontari normali e quelli anormali. I normali sono assolutamente buoni. Sono angeli: nei titoli di giornale, nei premi assegnati, nelle retoriche natalizie... Gli anormali sono sempre da guardare con sospetto. Alla ricerca di "cosa c'è sotto".

Mentre il mondo è diviso (per usare questa categoria) in volontari e non volontari. In "gente" e in "esseri umani" (per citare Mafalda). In chi si accorge degli altri e chi no. Semplicemente. Il resto è solo una questione di opportunità e circostanze della vita. 

Perché a volte il volontario normale si trova ad entrare in contatto con situazioni estreme e semplicemente sente di non poter restare immobile. E una volta fatta questa scelta il bivio tra il diventare un eroe e un colpevole è molto sottile e spesso anche un po' casuale. Semplificando un po' e con qualche variante possibile (ma non troppo) tenderei a dire che se tutto va bene si finisce per essere visti come eroi. Se le cose vanno male si finisce per sentirsi rinfacciare l'egoismo e l'incoscienza della scelta.

Perché? Perché così è tutto più semplice e rassicurante per chi non fa nulla. 

Perché è vero che non serve andare in un contesto di guerra per fare qualcosa per le vittime di una guerra. Ma è anche vero che, tendenzialmente, la stragrande maggioranza di persone che sottolinea questo aspetto poi non fa assolutamente nulla. Nemmeno l'accoglienza dei profughi quando arrivano in zona non pericolosa. Nemmeno una donazione. Nulla.

Mentre la stragrande maggioranza di persone che fanno scelte anormali prima e dopo quelle scelte hanno fatto mille altre scelte normali. Che sia essere scout o accogliere cani randagi, che sia essere animatore in parrocchia o allenare dei ragazzini o organizzare una mobilitazione per una giusta causa sociale.

Penso a Greta e Vanessa. E so che io oggi in condizioni simili non sarei andata in Siria. E in condizioni in qualche modo simili, quando ne ho avuto la responsabilità, mi sono trovata a scegliere di non "far andare" altri.

Ma non posso non pensare a Mirsada. Avevo poco più di 20 anni. Contro il parere di mia madre e di molti altri, partecipai ad una marcia che tentò di raggiungere Sarajevo in una Bosnia in guerra. Andò bene (nel senso che non ci furono incidenti o vittime) anche se fu un fallimento. Ma sarebbe potuta andare diversamente. E in molti avrebbero potuto dire che ce l'eravamo cercata. E in parte, in qualche modo, sarebbe stato anche vero.

Ma sono convinta che, nonostante tutto, ci sia un filo di umanità maggiore nelle scelte azzardate e magari sbagliate che nella scelta di ignorare tutto e non fare nulla. 

Detto questo, comunque la si pensi, credo che l'ondata di volgarità e violenza che si sta scagliando contro Greta e Vanessa sia davvero inopportuna e indegna. E credo che dovremmo riflettere sull'identità di un Paese in cui tutto questo si scatena in modo maggiore nei confronti di chi ha la "colpa" aggiuntiva di essere giovane e donna. 



Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...