Fedeli ai poveri... se lo vedete, cominciate!




Il recente incontro con il Papa ci ha consegnato una quarta fedeltà. Che poi non è una quarta ma (come era già avvenuto per l'altra quarta fedeltà, quella al futuro) è soprattutto una possibile sintesi e declinazione delle altre tre. E' impossibile non leggere il tema dei poveri in più dimensioni: 

C'è una dimensione di fede. Perché il tema dei poveri richiama il Concilio Vaticano ma, ancora prima e più a fondo, richiama il messaggio evangelico. La fedeltà ai poveri, perchè i poveri sono i destinatari privilegiati del messaggio evangelico di salvezza. Potremmo persino dire che la fedeltà ai poveri risponda ad un moto sanamente "egoistico". E' un moto che "serve a noi" ed al nostro (personale e collettivo) percorso di conversione. 

C'è una dimensione economico/sociale. La fedeltà ai poveri è una fedeltà non nei confronti di un concetto astratto. Non alla povertà (come per la democrazia). Ma a persone concrete e reali. I poveri che esistono oggi e che incontriamo (o che non siamo in grado di incontrare abbastanza oggi). 

C'è una dimensione politica. E' quella forse più intrigante. Per Acli che si collocano, da sempre, sulla frontiera tra società, chiesa e politica. 

Fedeltà ai poveri credo voglia dire fedeltà ad un impegno per il cambiamento, verso una società caratterizzata da minore povertà, minore disuguaglianza, maggiore giustizia sociale. Non un cambiamento "in nome dei poveri". Ma un cambiamento che sappia coinvolgere i poveri. "Far strada ai poveri, non farsi strada attraverso i poveri".

Parlare di fedeltà richiama l'idea di un patto. Ed il patto è qualcosa che non si può fare da soli. Il patto si fa con un altro da noi. Vuol dire Acli “in uscita” che vanno a cercare altri. Compresi i poveri, gli esclusi, i discriminati...non solo li accolgono, ma li cercano, per fare un patto con loro. Un patto cui essere fedeli. Un patto che impegna. Al quale poi si possa essere richiamati e su cui si possa essere verificati.

Un patto con i poveri, una promessa fatta ai poveri... è un impegno esigente. Fa anche un po' paura, a voler guardare... Ma... si sa... noi siamo quelli che non si fanno spaventare dai grandi compiti... anzi, mi verrebbe da dire, noi siamo quelli che si fanno spaventare  dall’assenza di un grande compito. Da una routine di gestione quotidiana in cui la fatica non trova né senso né orizzonte. 

Ma se l'orizzonte è questa fedeltà. E se la fedeltà ai poveri è fedeltà ad una lotta per il cambiamento (questo Papa usa moltissimo la parola "lotta")...quali sono i cardini dell'impegno? Io ne ho trovati alcuni, a mio parere molto stimolanti per le Acli, nel testo "Noi come cittadini, noi come popolo" che è un discorso del 2010 che l'allora Cardinal Bergoglio fece a Buenos Aires. Provo a tratteggiarli sinteticamente...

1. L'idea di popolo. 
L'idea di popolo è un'idea che a me pare estremamente affascinante e preziosa da esplorare. Come Acli abbiamo sempre detto che siamo un'associazione popolare. Oggi sarebbe bello declinare questo essere popolare con l’essere un’associazione di popolo. Cioè un’associazione che oltre a saper stare con la gente semplice, sappia anche contribuire a costruire un popolo. Cioè a  tenere assieme persone ed istanze anche contrapposte in una unità complessiva. Il popolo è una unità plurale. Parte da una cultura comune, si radica in un storia che è comune (e che sa riconoscere come comune). Si esprime in un insieme di territori. Si proietta verso un bene comune condiviso, comunemente individuato. A me pare che contribuire alla costruzione di un'identità di popolo in Italia, all'interno di una idea di Europa di popoli, sia un grande compito possibile, conseguenza dell'essere fedeli ai poveri. 

2. Il progetto politico  
La fedeltà ai poveri è data da scelte di coerenza, da iniziative di solidarietà, da vicinanza alle persone e da ricerca personale di fede. Ma questo non basta. La fedeltà ai poveri è data da un progetto politico di società che sappia immaginare e proporre i modi per esprimere una opzione preferenziale per i poveri. Non un progetto politico che abbia come soggetto storico solo i poveri. Un progetto politico che abbia come soggetto storico il popolo. In un farsi progressivo e mai terminato. In una costruzione di cittadinanza popolare impegnata, riflessiva, consapevole ed unita, in vista di un obiettivo comune. In una prospettiva di storia data dal succedersi di generazioni. 
La lettura della realtà di oggi non può che riconoscere una sconfitta collettiva. Non è questione di governo ed opposizione. E' questione di riconoscere collettivamente e comunemente che il paese che abbiamo costruito non è fedele ai poveri. E che la politica non si è sempre messa al servizio del bene comune. Non ha sempre saputo, voluto o potuto mettere limiti e contrappesi al capitale per sradicare diseguaglianza e povertà. Ed è una sconfitta che vede come causa ed effetto anche un'idea di politica inefficace. In cui la distanza tra la politica ed il popolo è andata aumentando. E che di converso ha visto la politica rincorrere il popolo attraverso i populismi, di varia natura, invece di assumere il proprio ruolo di responsabilità e governo.  Credo che dare il proprio contributo alla ricostruzione di una politica più responsabile ed efficace, meno legata ai populismi, meno lontana dal popolo sia un grande compito possibile, conseguenza dell'essere fedele ai poveri. 

3. Una attività di cura capacitante  
La fedeltà ai poveri è data da un fare libero, creativo, partecipato e solidale organizzato nei circoli, nelle forme associative specifiche, nelle attività dei servizi e delle imprese (quelle tradizionali e quelle nuove che possiamo e dobbiamo scoprire ed avviare) coerenti al progetto politico. Ossia da un intraprendere pensato ed organizzato perchè la persona che lo incrocia (sia essa il socio, il lavoratore dell’impresa, la famiglia che vi si rivolge o che semplicemente ne conosce l'esistenza) sia aiutato a passare da individuo a cittadino. E da cittadino ad appartenente ad un popolo. In un processo di convocazione che induce partecipazione, mobilitazione e trasformazione.   
Mi pare che un grande compito possibile, conseguenza dell'essere fedele ai poveri, sia esercitare in modo nuovo la tutela dei diritti, tramite forme di accompagnamento e cura delle persone e delle comunità. Con processi in grado di produrre partecipazione e Capacitazione  ed un welfare (ben-essere) comunitario, generativo, solidale e trasnazione … 
Se questo è l'orizzonte... non abbiamo che da sbizzarrirci per capire cosa fare...

4. Il conflitto e la lotta
Il conflitto esiste. Anzi, i conflitti esistono. Ed hanno un ruolo nella trasformazione e nello sviluppo della  società. I conflitti non possono essere ignorati. Serve viverli. Serve farsene carico. Ma non si può restare intrappolati nel conflitto. E non si può restare intrappolati nell'idea che il conflitto sia, di per sé, automaticamente la chiave del progresso. Credo sia un errore che abbiamo vissuto in varie fasi storiche.

Il conflitto non può che essere letto e riconosciuto. Si tratta di immergersi nel conflitto. Di compatirlo, di soffrirlo. Di posizionarsi all’interno di quello spazio possibile di creatività che ogni conflitto contiene come opportunità per rompere schemi troppo limitanti e generare nuovi spazi di conoscenza, di incontro, di libertà inclusiva. Il conflitto è un propulsore, è un attivatore. Ma non è di per sé un costruttore e contiene il rischio della distruzione. La trasformazione di conflitti in guerre distruttive o in processi evolutivi dipende da noi. Questo mi pare valga anche al nostro interno. Ma…per tornare ai poveri…

Potremmo immaginare la lotta di una parte contro le altre. Una guerra dei poveri contro i ricchi. Finirebbe (forse) in un rovesciamento dei ruoli. I poveri di oggi che diventano i ricchi di domani. I discriminati di oggi che diventano i discriminatori di domani. Gli esclusi di oggi che diventano gli esclusori di domani...Può essere un riscatto ma...
La fedeltà ai poveri a me pare qualcosa di più. Non una fedeltà solo a chi oggi è povero, discriminati, escluso. Ma la capacità di immaginare una società che non escluda e non produca poveri.  E questo non si può raggiungere solo con il conflitto. 
Penso al rapporto tra Nord e Sud in Italia. 
Penso alla contrapposizione tra responsabilità e giustizia in Europa. 
Penso alla necessità di coalizione dei diversi soggetti del mondo del lavoro... 
Penso a tutto ciò che si muove attorno alla contrapposizione gender/famiglia che diventa conflitto tra cattolici e laici, tra valori ed idee... 
E tante altre cose... 
Credo che esercitare in modo coraggioso e creativo l'essere soggetto di frontiera, accrescendo la capacità di trasformare i conflitti in modo costruttivo, coniugando una chiara identità specifica in un'orizzonte più ampio... sia un grande compito possibile per Acli fedeli ai poveri.

5. Non la sfera ma il poliedro
Il tutto è superiore alla parte. Ma il tutto non può annullare la parte. Il modello di riferimento non è la sfera. La sfera è un tutto che annulla la parte. La parte non è più visibile, scompare. E' un'idea di bene comune ridotto ad una unica visione che finisce per diventare bene privato. Il modello è il poliedro. Il poliedro è un unico in cui le parti sono ancora riconoscibili. In cui il bene comune non annulla i beni specifici e le identità. Bontà, verità, bellezza, dimensioni diverse in una unità che ricompone senza annullare. 

6. Il tempo della speranza
L'abbiamo letto tutti nell'Evangelii Gaudium: é il tempo che governa gli spazi e li illumna e li trasforma in una catena, in un processo. Festeggiamo i 70 anni. Leggiamo storicamente il processo di una associazione che si misura in quanto sa attivare processi, nel tempo. Con orizzonti più o meno chiari, ma senza sottostare alla dittatura dell'oggi. "Quello che non avviene oggi, non è" "Oggi o mai più" No! la virtù da coltivare è anche quelle della Speranza. La Speranza non è l'ottimismo. La speranza è l'assunzione di una fatica declinata con la pazienza e con la consapevolezza che a noi tocca fare la nostra parte ma che non tutto può dipendere da noi.  

Dicono che quando Papa Francesco era Cardinale in Argentina e i preti delle periferie andavano a presentargli le idee, i progetti, le intenzioni... lui ascoltava, interrogava, approfondiva e quando vedeva che il progetto aveva a che fare con qualcosa per cui valesse la pena davvero, diceva.... "se lo vedete cominciate". 


Ecco... io credo che la sfida dei 70 anni possa essere questa.... riconoscere quale è oggi il nostro nuovo compito, il qualcosa per cui vale la pena lottare, e poi...semplicemente... cominciare a fare la nostra parte per far continuare la storia... 

(più o meno, difficoltà di microfono permettendo) è l'intervento fatto a Catania per il #70anniAcli organizzati dalle Acli Sicilia. 

Attenti al rischio di non essere gioiosi...




E’ un gioia condividere questo tempo con una associazione verso la quale nutro stima e sentimenti di affetto e coinvolgimento.

Fedeltà alla Chiesa. E’ una delle fedeltà ineludibili. 

Il discorso del 23 maggio è stato illuminante: Il Papa invita l’associazione a prendere consapevolezza che i tempi sono mutati, che serve cambiare le coordinate dell’agire sociale. Porsi in ascolto del nuovo e prendere consapevolezza del cambiamento. Cambiamento che non è congiunturale ma strutturale. Il Papa invita a vivere il cambiamento, a coinvolgersi nel cambiamento.
A vivere fino in fondo la dimensione del lavoro, di fronte ad un dio denaro che distrugge questa dimensione e produce la cultura dello scarto. 

l vostro impegno abbia sempre il suo principio e il suo collante in quella che voi chiamate ispirazione cristiana, e che rimanda alla costante fedeltà a Gesù Cristo e alla Parola di Dio, a studiare e applicare la Dottrina sociale della Chiesa nel confronto con le nuove sfide del mondo contemporaneo.
L’ispirazione cristiana e la dimensione popolare determinano il modo di intendere e di riattualizzare la storica triplice fedeltà delle ACLI ai lavoratori, alla democrazia, alla Chiesa. Al punto che nel contesto attuale, in qualche modo si potrebbe dire che le vostre tre storiche fedeltà – ai lavoratori, alla democrazia e alla Chiesa – si riassumono in una nuova e sempre attuale: la fedeltà ai poveri.

Fedeltà ai poveri: l’associazione può continuare ad essere ciò che è nella misura in cui vive un profondo legame con il senso del suo esistere, con quel Gesù Cristo che noi tutti riconosciamo come Signore della storia e del tempo. Senza questo legame vissuto in modo radicale noi corriamo il rischio che le nostre fedeltà e anche la fedeltà ai poveri perdano il loro valore e non abbiano risonanza in questo nostro tempo.

Quando manca il fondamento prendono il sopravvento altre variabili. La corsa al potere, la perdita delle relazioni per la costruzione di un mondo più giusto, emergono tendenze individualistiche che calpestano il senso di un andare. Il fondamento non può che essere il Cristo, Signore della storia. Fondamento del nostro stare insieme, non vissuto in modo solo personale, né in modo isolato, ma all’interno della grande esperienza della Chiesa intera.

Il Papa chiede uno sforzo. Non all’associazione in quanto associazione. Ma a  tutti coloro che fanno parte dell’associazione. Noi possiamo essere significanti nella realtà del nostro Paese nella msiura in cui ciascuno di noi che decide di appartenere alle Acli vive anche una profonda esperienza del Cristo morto e risorto. Senza richiamo al fondamento non andiamo da nessuna parte. Ci inaridiamo. Diventiamo persone che in modo routinario trascinano il proprio tempo nella ricerca di ciò che non dà pace e verità alla storia di ciascuno e alla storia delle Acli. 

La motivazione interiore che ci muove è fondamentale. Senza la motivazione interiore la testimonianza diventa vuota. Compiamo tante azioni importanti, magari in tante realtà si è un punto di riferimento per i poveri e per gli emarginati. Ma non basta. Sarebbe bello, incontrando le Acli, poter incontrare negli uffici, nei patronati … non dirigenti o burocrati, ma persone che vivono in modo radicale il Vangelo. Non abbiamo bisogno di burocrati prezzolati. Abbiamo bisogno di testimoni appassionati che accompagnano le persone nella ricerca di un senso che non finisce.

E ‘ questa la nostra prospettiva nel qui ed ora di questo tempo. Il coraggio di mettere al centro il Signore, viverlo nella quotidianità ed essere pronti a testimoniarlo, con gioia.

Se non siamo persone motivate evangelicamente, corriamo il rischio di vendere illusioni. 

Nell’encliclica Laudato sii si sottolinea con forza la necessità di prendersi cura della casa comune. Del nostro tempo. Accompagnare il nostro tempo. E mettersi al passo con la storia di tanti uomini e donne. Che sono alla ricerca di una prospettiva di vita. 

Tante volte l’essere umano si arrangia per alimentare tutti i vizi autodistruttivi, cercando di non vederli e non riconoscerli. Rimandando le decisioni importanti, facendo come se nulla fosse. 

Senza riferimento costante al Vangelo diventiamo impermeabili, indifferenti. Faticosamente ci trasciniamo senza trasmettere quell’entusiasmo liberante che fa di noi persone gioiose. Dobbiamo stare attenti al rischio di non essere gioiosi,  di trovare il modo di non cambiare e di arrangiarci nella realtà. Così diventiamo impermeabili alla vita degli altri. Finiamo per fare le cose solo per abitudine. 

La Chiesa italiana si incontrerà a Firenze a fine anno. Per capire come possiamo, in Cristo Gesù, esprimere un nuovo umanesimo. Sarebbe utile se come Acli prendessimo in mano i documenti preparatori per Firenze per prepararci. ( ndr http://www.firenze2015.it/category/materiali/traccia/).  
Lì vengono indicate 5 vie per vivere una umanità nuova:

-       uscire 
-       annunciare
-       abitare
-       educare
-       trasfigurare

Uscire. Uscire da noi, uscire dalle nostre dinamiche auto referenziali per vivere prossimità concreta alla vita della gente. E’ la dimensione della soglia, del confine. E’ lì che si gioca il nostro futuro. 

Uscire, annunciare, abitare, educare. Diventano possibili solo se c’è trasfigurare. Possiamo avere tante idee come associazione, tante prospettive. I nostri incontri, i seminari, gli appuntamenti.. questa voglia di esserci diventa motore di trasformazione solo nella misura in cui noi viviamo esperienza della morte e risurrezione del Signore e accettiamo di lasciarci trasfigurare. 

C’è un rapporto intrinseco tra fede e carità. Dove si esprime il senso del mistero. il divino nell’umano e l’umano nel divino. Senza preghiera la carità si svuoterebbe. Sarebbe pua filantropia incapace di conferire significato alla comunione fraterna. 

Vogliamo essere significativi? Gioiosamente significativi? Vogliamo dare prospettive di un mondo migliore a questo nostro tempo? Mettiamocela tutta. Investiamoci tempo ed energia. Non è facile. Richiede la fatica della ricerca.  Ma se ciascuno investe nella forza del Vangelo può farcela. E la nostra associazione può essere, qui ed ora, luogo di speranza e trasformazione. 

Premessa: sono appunti presi in diretta e non rivisti dall'autore, dell'intervento di Padre Gianni Notari all'iniziativa #70anniAcli organizzata a Catania dalle Acli Sicilia. Spero di non tradiscano troppo...

Tra libertà e necessità...


Mi è capitato in mano per caso in un'edicola di libri usati e non ho potuto non prenderlo.

Lei è Simone Weil. Cioè una donna. Vissuta a cavallo tra le guerre. Politica e mistica. Ebrea e cristiana. Marxista e Filosofa. Scrittrice ed Operaia....

I brani di carteggio vanno giù in un sorso. Il testo finale sull'amicizia non l'ho ancora del tutto digerito, ci sto rimuginando. Ma mi intriga...

La preferenza personale verso un determinato essere umano può essere di due tipi. O si cerca nell'altro un certo bene, oppure si ha bisogno di lui. In linea generale tutti i legami possibili si suddividono tra queste due specie. Ci si dirige verso qualcosa, o perchè si cerca in essa un bene o perchè non se ne può fare a meno. Talvolta i due moventi coincidono. Spesso no. Di per sé stessi sono distinti e completamente indipendenti. 
E mi viene in mente Arturo Paoli e il fatto che nessun incontro (neppure banale) è di per sé neutro. O ci spinge a cadere in avanti o ci spinge a cadere indietro. O ci sospinge verso il bene o ci è di ostacolo nella ricerca del bene.

Ecco, mi pare che Simone Weil caratterizzi questo avanti e indietro attorno all'equilibrio tra libertà e necessità.
 L'amicizia è un'armonia soprannaturale, un'unione di contrari. 
Dove i contrari non sono le due persone diverse. I contrari sono il bene ed il bisogno. La libertà e la necessità. L'amicizia pura è la capacità (assoluta e di per sé umanamente irrealizzabile) di tenere assieme pienamente senza svilire nessuna delle due dimensioni. Comprenderle senza negarle.

Personalmente non uso molto il termine amicizia. Ma mi pare in fondo in qualche modo Simone Weil indaghi nodi cruciali presenti in tutte le relazioni umane.

Quando qualcuno desidera sottomettere a sé un essere umano o accetta di sottomettersi a lui non c'è traccia di amicizia. 
Non c'è alcuna contraddizione tra cercare un bene in un essere umano e volergli bene. Per la stessa ragione quando il movente che spinge verso un essere umano è solo la ricerca di un bene non esistono i presupposti per l'amicizia.
Allora l'amicizia o la relazione umana sana e costruttiva si colloca proprio lì. In quell'incrocio impossibile ed irraggiungibile tra libertà e necessità. E l'amicizia non è un'emozione e neppure un affetto. E' una virtù praticata e coltivata in un succedersi di esperienze di imperfezione.
La causa più frequente della necessità, nei legami affettivi, è una certa combinazione di simpatia ed abitudine. Come nel caso dell'avarizia o della intossicazione, ciò che inizialmente costituiva la ricerca di un bene si trasforma in bisogno per il semplice trascorrere del tempo. Ma la differenza rispetto all'avarizia, all'intossicazione e ad ogni altro vizio è che nei legami affettivi i due moventi possono coesistere molto bene.  
Allorchè l'attaccamento di un essere umano ad un altro è determinato soltanto dal bisogno vi è qualcosa di atroce. Poche cose possono toccare tale livello di bassezza e di orrore. Vi è sempre qualcosa di orribile in tutte le situazioni in cui un essere umano ricerca il bene e trova solamente necessità.   
L'anima umana, è vero, dispone di un arsenale completo di menzogne per proteggersi contro questa bassezza e fabbricarsi nell'immaginazione dei falsi beni là dove vi è soltanto necessità. E' proprio per questo che la bassezza è un male, perchè costringe alla menzogna.  
In senso molto generale, vi è sventura ogni volta che la necessità, sotto qualsiasi forma, si fa sentire in modo così duro che la durezza supera la capacità di menzogna di chi subisce lo choc. 
Per chi è capace di arrestare la reazione automatica di protezione di sé, che tende ad accrescere nell'anima la capacità di menzogna, la sventura non è un male, benché sia pur sempre una ferita e in un certo senso una degradazione.
 Dove la forza sta nell' accettare la fragilità. Nel riuscire a lavorare per smascherare le menzogne che ci si racconta da soli, per proteggersi da sé. Pur sapendo che questo ci lascia nella sventura, senza protezione. Feriti e degradati.
Un'amicizia è infangata non appena la necessità ha il sopravvento sul desiderio di conservare per l'uno e per l'altro la facoltà di libero consenso. 
In tutte le situazioni umane la necessità è principio di impurità. Ogni amicizia è impura se vi affiora, anche solo come traccia, il desiderio di piacere o il desiderio opposto. In un'amicizia perfetta questi due desideri sono completamente assenti. I due amici  accettano pienamente di essere due creature distinte. L'amicizia è un miracolo grazie al quale un essere umano accetta di guardare a distanza senza avvicinarsi quello stesso essere che gli è necessario come nutrimento.
Simone Weil è talmente assoluta da indicare una rotta e al tempo stesso da renderla spietata. 

Nessuno è così. Siamo tutti fragili. Ed incompiuti. E siamo esseri sociali. La necessità dell'altro è in fondo ineliminabile. L'altro mi è indispensabile per essere me. Mi è indispensabile nella sua alterità da me. Nella misura della libertà che so riconoscergli di essere pienamente sé. E di condividere o meno qualcosa con me. Nella misura in cui so costruire spazi di gratuità, sopportando l'assenza di reciprocità cui pure anelo. Nella misura in cui lo scambio sa essere intimo senza diventare esclusivo. Non accampa diritto di continuità né di proprietà. Nella misura in cui accetto non solo la distanza ma anche il conflitto come parte dello scambio e della relazione. Ma so includerlo in una visione complessiva e circoscriverne gli effetti distruttivi.

È un'idea di fraternità. Indispensabile ma impossibile. È un'utopia. 

Ma per fortuna mi viene in soccorso Arturo Paoli. 
La relazione in cammino è una relazione tra persone che, coscienti che la relazione è un'utopia, prendono ciò nonostante la decisione di cercarla. 
E solo tra coloro che vivono seriamente, autenticamente la tristezza di non pervenire ad un tipo di relazione di vera fraternità e la speranza di potervi arrivare, si stabilisce la vera solidarietà. 
Vera solidarietà non può stringersi se non tra persone abituate ad accettarsi come sono, nel loro vero essere. 
Non si può che abituarsi ad una convivenza scomoda tra la libertà e la paura. Il giorno che la libertà si fa sicurezza si corrompe. E il giorno in cui si rinuncia alla libertà per amore della sicurezza si piomba in una schiavitù senza rimedio.  
 La libertà è una strada senza margini, come si fa a camminare nella libertà?  (E. Fromm). 
Eppure non c'è altra strada da cercare...

Ps (Per chi ha voglia, il testo della riflessione di Simone Weil sulla amicizia)
https://drive.google.com/file/d/0B7xYMdtDJdp_VGhEd2pwTGNaZmM/view?usp=sharing





Vi spiego la prima legge della genialità



In che modo una persona arriva ad avere un'idea nuova? Si può presumere che il processo di creatività, qualunque cosa sia, sia essenzialmente lo stesso in tutte le sue diramazioni e varietà, e quindi che l'evoluzione di una nuova forma d'arte, di un nuovo congegno, di un nuovo principio scientifico, comporti sempre degli elementi comuni. La cosa che ci interessa maggiormente è la "creazione" di un nuovo principio scientifico o di una nuova applicazione di un vecchio principio scientifico, ma possiamo parlare in generale.

Un metodo per indagare il problema è quello di prendere in considerazione le grandi idee del passato e capire in che modo sono state generate. Si pensi per esempio alla teoria dell'evoluzione attraverso la selezione naturale, creata da Charles Darwin e Alfred Wallace. Ci sono molte cose in comune, in questo caso. Tutti e due avevano viaggiato in posti lontani, tutti e due avevano osservato strane specie di piante e animali e il modo in cui variavano da un posto all'altro. Tutti e due erano smaniosi di trovare una spiegazione per questo fatto, e tutti due ci riuscirono solo dopo aver letto il Saggio sulla popolazione di Malthus. Tutti e due videro che il concetto di sovrappopolamento ed "estirpazione" (che Malthus aveva applicato agli esseri umani) si adattava bene alla dottrina dell'evoluzione attraverso la selezione naturale (se applicato alle specie in generale). È evidente, quindi, che quello che serve non sono solamente persone con una buona preparazione in un certo campo, ma anche persone capaci di fare un collegamento tra l'oggetto 1 e l'oggetto 2, che normalmente non sembrano collegati.

Sicuramente nella prima metà del XIX secolo moltissimi naturalisti avevano studiato il modo in cui le specie si erano differenziate fra loro. E moltissime persone avevano letto Malthus. Ma quello di cui c'era bisogno era qualcuno che avesse studiato le specie, che avesse letto Malthus e che avesse la capacità di incrociare le due cose. È questo il punto cruciale, la caratteristica rara che dev'essere trovata. Una volta che qualcuno lo ha stabilito, il collegamento diventa ovvio. Thomas Huxley avrebbe esclamato, dopo aver letto L'origine delle specie : «Che stupido a non averci pensato!». Ma perché non ci aveva pensato? La storia del pensiero umano induce a ritenere che è difficile pensare a un'idea, anche quando tutti i fatti sono lì, sul tavolo. Per fare questo collegamento serve una certa audacia. E dev'essere così, perché ogni collegamento che non richiede audacia è un collegamento che può essere fatto da tante persone contemporaneamente e che non si sviluppa come un'"idea nuova", ma come un semplice "corollario di un'idea vecchia". È soltanto dopo che un'idea nuova appare ragionevole. Inizialmente è il contrario: sembra il massimo dell'irrazionalità presupporre che la terra sia tonda invece che piatta, o che sia lei a muoversi invece del sole, o che un oggetto, una volta messo in movimento, necessiti di una forza per fermarsi e non di una forza per continuare a muoversi; e così via. Una persona disposta ad andare contro la ragione, l'autorità e il senso comune è necessariamente una persona molto sicura di sé. Dato che persone di questo tipo nascono di rado, sicuramente apparirà eccentrica al resto della popolazione. Una persona eccentrica sotto un certo aspetto spesso è eccentrica anche da altri punti di vista.

Di conseguenza, la persona che ha maggiori probabilità di arrivare ad avere un'idea nuova è una persona che ha una buona preparazione nel settore in questione e che ha abitudini non convenzionali. Una volta trovate queste persone, la domanda successiva è: è meglio metterle insieme in modo che possano discutere il problema tra loro, o informare ognuno del problema e lasciare che lavorino per conto proprio? La mia sensazione è che quando si parla di creatività sia necessario l'isolamento. Tuttavia, una riunione di persone del genere può essere auspicabile per ragioni che non hanno a che fare con l'atto di creazione in sé e per sé. Due persone non avranno mai lo stesso identico magazzino mentale di nozioni. La mia sensazione è che lo scopo delle sessioni di elucubrazione non è escogitare idee nuove, ma educare i partecipanti a fatti e combinazioni di fatti, teorie e pensieri in libertà. 

Il mondo in generale disapprova la creatività, ed essere creativi in pubblico viene visto particolarmente male. Il creativo, quindi deve avere la sensazione che gli altri non troveranno nulla da ridire. Il numero ottimale di partecipanti alla riunione non dev'essere molto alto. Probabilmente sarebbe meglio organizzare una serie di riunioni a cui partecipano ogni volta persone diverse, invece di un'unica riunione con dentro tutti. Per ottenere i migliori risultati, deve esserci una percezione di informalità. La giovialità, l'uso dei nomi di battesimo, le battute, le prese in giro rilassate, secondo me sono fondamentali: non in quanto tali, ma perché incoraggiano i partecipanti a prendere parte alla follia della creatività. 

L'elemento che probabilmente inibisce più di tutti è la sensazione di responsabilità. Le grandi idee del passato sono venute da persone che non erano pagate per avere grandi idee, ma che erano pagate per fare gli insegnanti, i funzionari dell'ufficio brevetti, gli impiegati pubblici, o non erano pagate affatto. Le grandi idee sono spuntate come questioni secondarie. Sentirsi in colpa perché non ci si guadagna lo stipendio perché non si ha avuto una grande idea è il modo più sicuro, secondo me, per precludere ogni possibilità di grande idea. Pensare ai parlamentari, o ai cittadini in generale, che sentono parlare di un gruppo di scienziati che si gingillano, elaborano progetti irrealizzabili, magari raccontano barzellette sconc

e, tutto a spese dei contribuenti, fa venire i sudori freddi. In realtà lo scienziato medio ha sufficiente coscienza civica da non voler avere l'impressione di fare una cosa del genere nemmeno se nessuno dovesse venirlo a sapere. Io suggerirei di assegnare ai partecipanti di una sessione di elucubrazione compiti non impegnativi da svolgere (scrivere un breve rapporto o una sintesi delle conclusioni) e pagarli per questo. In questo modo la riunione formalmente non sarebbe pagata e questo renderebbe tutto molto più rilassante. Se sono completamente rilassati, sgravati da responsabilità e impegnati a discutere cose interessanti, ed essendo per loro stessa natura persone non convenzionali, saranno i partecipanti stessi a creare strumenti per stimolare la discussione.
Il progetto top secret che non vide mai la luce 

Era il febbraio 1959, quando Isaac Asimov venne avvicinato da Arthur Obermayer, scienziato e caro amico dello scrittore. Con una proposta: entrare a far parte di un gruppo di ricerca super segreto creato al Mit di Boston per un progetto di difesa in caso di attacco nucleare. Il governo americano (presidente era allora il generale Eisenhower), nonostante i miliardi spesi per le nuove tecnologie si era reso conto che occorreva uno scatto di fantasia, voleva qualcuno in grado di ragionare out of the box , fuori dagli schemi. Asimov disse di sì, l'idea in qualche modo lo affascinava e poi nel ristretto team dell' Advanced Research Projects Agency che si doveva occupare del progetto Glipar ( sviluppo di nuovi sistemi missilistici) lui era chiamato più degli altri a portare "idee creative". La collaborazione non durò a lungo. Dopo alcuni incontri con gli scienziati del team e i supervisori militari, lo scrittore decise di abbandonare il progetto. Non voleva avere a che fare con troppe notizie top secret, convinto che avrebbero potuto limitare la sua libertà di espressione. Prima di farlo, quasi a forma di saluto e ringraziamento, scrisse un piccolo saggio che aveva come argomento la nascita dei processi creativi e in cui teorizzava che andrebbero collegati al processo evolutivo basato sulle teorie di Darwin. Dopo 55 anni Obermayer ha deciso di renderlo pubblico.

We take care of our own


Pensando a questa due giorni di programmazione del Patronato Acli e cercando di seguire il filone musicale mi è venuta in mente questa... 


Perché il Patronato (e stamattina si è visto) è un soggetto già internazionale. E finora sono state citate solo canzoni italiane. 

Perché (parlando di welfare e di cambiamenti difficili) questa canzone è stata usata anche per la campagna elettorale di Obama che a parte essere il primo presidente nero può essere ricordato per aver portato a casa una riforma sanitaria in un luogo come gli Stati Uniti ... 

Ma soprattutto perché parla di “prendersi cura” e io credo che questo sia uno degli assi centrali dell’identità del Patronato.  

-       Ieri nelle slide si parlava di "quale è il mercato” del Patronato. Due giorni fa in Expo Padre Sorge parlava di "Quale è la frontiera del Patronato". Io credo che la frontiera del Patronato, il "mercato" del patronato sia il prendersi cura dei cittadini spersi e disorientati nella crisi. Che è un disorientamento a tutto tondo…

Dovè lamore che non mi ha abbandonato?
Dovè il lavoro che libererà le mie mani, la mia anima?
Dovè lo spirito che regna su di me? 
- 
Ma la risposta possibile al disorientamento non è attendersi l'arrivo dei salvatori della Patria  

Avevamo bisogno di aiuto ma la cavalleria è rimasta a casa
Non cè nessuno che sente la tromba suonare

We take care of our own. Siamo noi che ci prendiamo cura di noi stessi.

Lo scenario di fondo in cui ci muoviamo io credo sia questo: a fronte della crisi che provoca disorientamento, diseguaglianza, povertà, conflitti... rimboccarsi le maniche e mettersi assieme per trovare soluzioni ai problemi comuni. E credo che questo abbia molto a che fare con l’essere una associazione di promozione sociale come siamo. 

We take care of our own. Siamo noi che ci prendiamo cura della nostra gente. 

E questo mi pare si connetta anche con le trasformazioni del welfare che stiamo vivendo. Uno scenario che cambia come si diceva nelle relazioni ieri. Tra tutto quello che loro hanno citato io individuo alcuni filoni di cambiamento che mi pare si interconnettano con noi e con le sfide di oggi: 

1.    Da welfare state a welfare di comunità
Da un welfare state, in cui lo stato eroga servizi, il terzo settore li realizza e il cittadino è un utente che li riceve ad un welfare di comunità, in cui tutti i diversi settori della comunità (istituzioni, imprese, terzo settore ma anche famiglie e cittadini stessi) si mobilitano per costruire in modo partecipato risposte ai bisogni.

2. Da welfare erogativo a welfare generativo
Da un welfare erogativo o di pura prestazione ad un welfare generativo. Dove l’asse centrale non è la risposta al bisogno tramite il disbrigo di una pratica o l’erogazione di un sussidio. Ma è l’attivazione di tutto ciò che può essere messo in campo per mobilitare le risorse che lo stesso cittadino, la stessa famiglia  e la stessa comunità possiede. (Gli esempi e i ragionamenti di stamattina da Giacomo ad Anna Manunta da Marco a Pino se non mi sbaglio parlavano anche di questo).

3. Da welfare state a welfare di prossimità
Da un welfare state in cui i servizi sono tanti e specialistici e chiedono al cittadino di individuare il bisogno giusto per ogni servizio ad un welfare di prossimità in cui i servizi si ricompongono in agglomerati e filiere e si prendono l'impegno di accogliere la persona nella sua interezza. Perchè la centratura non è più il bisogno ma la persona nella sua famiglia e nella sua comunità.  

4. Da welfare state a welfare trasnazionale 
Forme di welfare informale e transazione sono già oggi in atto come supplenza di servizi che la crisi fiscale ha ridotto.  Sopratutto per quanto riguarda il settore della cura. Ma c'è bisogno di politiche pubbliche adeguate e sistemi di esperienze attrezzati per rendere sostenibile ciò che oggi è molto anarchico e con livelli troppo alti di sfruttamento ed esternalità negative nei confronti dei Paesi di origine. Ma lo spazio di azione è più ampio, c'è bisogno di costruire un sistema in cui i diritti acquisiti e le tutele non si fermino di fronte alle frontiere tra gli Stati ma seguano le persone nel loro spostarsi, volontario o involontario.

We take care of our own. Una comunità che si prende cura di se stessa. 

La crisi ci ha consegnato una società di impoverimento, di aumento delle diseguaglianze, di emergere di vecchie e nuove discriminazioni, di diminuzione dei diritti e delle opportunità. Serve un cambio di paradigma che ha una dimensione politica, economica, finanziaria.... Ma il primo cambio di paradigma è che il cambiamento non può più essere solo rivendicato come diritto verso le istituzioni. Va costruito, sperimentato e poi proposto per essere sostenuto e diffuso. E ad ogni diritto non può non corrispondere una responsabilità.  

Quindi.... quale è la nostra sfida? 

La sfida non è dare sostenibilità economica al Patronato a fronte dei tagli. La sfida è ridurre povertà e  diseguaglianze. E' chiamare le persone a partecipazione per rigenerare assieme la società costruendo assieme un nuovo sistema di cittadinanza, di welfare e di lavoro. 

Il milione di firme, le interviste del video, le testimonianze di oggi, le esperienze che chi lavora nel Patronato fa tutti i giorni... a me sembra dicano che il patrimonio del Patronato non è solo quello che si vede nel bilancio, non è nemmeno solo il personale o le strutture. Il Patrimonio del Patronato oggi a me pare siano soprattutto 4 cose: 
- le competenze 
- il radicamento
- le relazioni (interne ed esterne al Sistema Acli)
- la credibilità e la fiducia.

Io sono convinta che se mettiamo al centro dei nostri sforzi lo scenario, al centro delle nostre fatiche la sfida e al centro delle nostre scelte la valorizzazione del nostro patrimonio reale, del nostro capitale sociale... poi troveremo anche i modi per attraversare le complicatezze interne ed i problemi economici che oggi ci preoccupano…

In fondo mi pare anche Laura nel suo intervento facesse riferimento a questo. L'assenza di chiarezza su tutti gli obiettivi può non essere impedimento ad un andare comunque attento e competente. Che costruisce la strada mentre la percorre. Ma con alcuni punti di riferimento chiari.

Costruiamo piccoli spazi e tempi protetti dalle urgenze e dalle interferenze in cui confrontarci, studiare ed approfondire tutto questo. 


We take care of our own. Prendiamoci cura di noi…

Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...