Niente paura!


Il Consiglio nazionale delle Acli del 27 e 28 novembre a Roma ha convocato il 25′ congresso dell’associazione.
Un percorso intitolato Niente Paura, coinvolgerà tutte le realtà territoriali e si concluderà a Roma il 6-7-8 maggio 2016.
Gli orientamenti congressuali sono stati approvati dall’unanimità dei presenti (1 astenuto) e con mandato alla Presidenza Nazionale di aggiustamenti sul testo e sul sottotitolo per tenere conto di quanto emerso dal dibattito. 
Visto il contesto di crisi e la volontà condivisa di impegnarsi per una maggiore sostenibilità economico finanziaria di sistema è stato anche dato mandato alla Presidenza di tenere aperto ancora per un breve periodo la ricerca di soluzioni organizzative per il congresso che permettano un ulteriore risparmio dei costi. Compresa l’ipotesi di una località differente da Roma.
Stante le successive versioni finali e le elaborazioni grafiche, ci sembra utile condividere, in ottica di trasparenza e chiamata a partecipazione di tutti al dibattito:
A tutti e tutte, buon congresso!

Guarda che cielo che hai, e guarda dove vai!



Se non ti piaci, vedrai, non cambierai mai. Guarda che cielo che hai. Guardati e guarda cos’hai. Guarda dove vai! 
Vasco
Un mese fa ci siamo chiesti:
Un Paese libero, creativo, partecipato, solidale: più giusto!
Che sfide sociali raccogliere per costruirlo…
Che Acli servono per affrontarle…
Oggi consegniamo simbolicamente al dibattito congressuale www.piugiusto.org con il contenuto dei 48 posti arrivati. Che contengono immagini, storie, riflessioni, spunti ed esperienze diverse. Punti di vista in cui riconosciamo anche convergenze ma che non vogliamo accomunare o forzare in una linea comune. E che non sono riassumibili. E non sono di nostra proprietà. Sono un patrimonio a disposizione di tutta l’associazione. Sono di dirigenti e di soci, di lavoratori e altri interessati. Per questo ci piace entrino, anche formalmente, in un Consiglio Nazionale.
E poi aggiungiamo alcuni nostri spunti. Non un documento. Un contributo aperto su alcuni temi e interrogativi che ci paiono emergere e che possono aiutare a portare altre riflessioni al dibattito comune.
  1. Ragionamenti di fine mandato
Tre anni fa si sono scontrate due coalizioni. Quella che ha vinto aveva al centro della propria proposta:
  • emergenza associativa
  • risanamento economico
  • autonomia politica
Su tutto ciò occorre fare una verifica ed essere verificati, sapendo che, nonostante le cose buone fatte, oggi non ci si può dire soddisfatti. E ci si deve assumere collegialmente la responsabilita’ di un insieme di persone e di punti di vista, locali e nazionali, che non sono riusciti a diventare gruppo come avrebbero dovuto.
Inoltre ci troviamo oggi a fare i conti con una crisi che e’ diventata di sistema e che richiede di essere affrontata senza sconti, promuovendo non una piccola azione di riforma ma un profondo ridisegno complessivo. La cui efficacia e’ legata alla presa in carico complessiva di tutta l’organizzazione nel suo insieme e ad una gestione dei tempi oggi per le Acli inedita.
2Spunti per allargare il dibattito stringendolo alla ricerca dell’essenziale dell’essere e fare le Acli.
Le cose di cui non possiamo fare a meno entro maggio sono molte. Ne sottolineiamo, per ora, tre che ci paiono emergere e che ci piacerebbe entrassero in confronto con i materiali del congresso: gli Orientamenti, il documento Le Acli in trasformazione, le proposte dell’Assemblea strordinaria.
CHI VOGLIAMO ESSERE
Una risposta che ridisegni l’essenzialità delle ACLI oggi. L’abc del nostro essere, la traccia di una identità e mission complessiva per tutta l’organizzazione. Non per chiudere definitivamente l’argomento ma per farne l’ossatura di un processo di co-costruzione dinamica e di dialogo continuo. 
COSA VOGLIAMO FARE
Una risposta che recuperi i presupposti culturali e giuridici di nascita del nostro agire promuovendo servizi di organizzazione di diritti e tutele. Che riscopra il servizio come componente indispensabile del fare associazione e movimento. Movimento delle persone che incontriamo, partendo dai più deboli e dalla comunità che viviamo.
Una risposta che ci faccia smettere di essere un condominio di tante imprese e associazioni e torni ad essere dialogo, azione e cammino comune di differenti esperienze, anche rimettendo insieme parti, tessere e imprese. Sfidando le istituzioni al cambiamento e non irrigidendo noi stessi in maglie giuridiche strette.
COME VOGLIAMO ESSERE
Una risposta che ridisegni stile e sostenibilità dell’organizzazione. Con proposte concrete in merito a redistribuzione di fondi, presenza territoriale, sistema di autonomie ed identificazione di attività e fondi di finanziamento anche nuovi.
Una risposta che delinei la possibilità di presenza di base sul territorio, il nostro associarsi non come sola tessera, ma come condividere una responsabilità, e un cammino di gruppo, alleggerendo il carico di struttura e formalità.
  1. Proposte di metodo
Il congresso non è un evento. E’ un processo. Ed e’ il momento in cui ci mettiamo a pensare insieme le Acli nel loro essere un progetto che va oltre se stesse e guarda al suo senso sociale, spirituale e democratico. La materia del congresso e’ la democrazia e sono le scelte. La sostanza della democrazia e’ la partecipazione e non è compiuta senza un reale dibattito pubblico.
Per questo nei prossimi mesi vogliamo:
proseguire l’esperienza del blog come luogo di raccolta di contributi e materiale di questo lavoro congressuale e come spazio di confronto e dibattito.
rintracciare nei contributi raccolti e dal dibattito congressuale temi che diventino incontri e dialogo nel territorio e tra territori.
Identifichiamo qui alcune proposte che ci sembrano caratteristiche per tema e metodo e che rilanciamo a chi e’ interessato:
  • un momento di 70esimo non dedicato alla celebrazione o ai festeggiamenti ma che provi a ricostruire parallelamente il periodo dal 1990 ad oggi del Paese e delle Acli. E lo faccia diventare seria analisi capace di orientare, senza errori grossolani, le strategie.
  • Alcuni momenti in territori che lo desiderano, nei percorsi congressuali, per focalizzare dimensioni essenziali della proposta. In occasioni aperte a tutti e offrendo all’associazione intera l’esito della riflessione.
  • Alcuni momenti non strutturati, aperti all’iniziativa di singoli aclisti, lavoratori o interessati, di confronto online anche con il contributo di esterni. 
Ed infine la proposta di raccogliere l’invito del convegno ecclesiale di leggere assieme l’Evangelii Gaudium.
Passa per il buio, passa per l’amore, passa per la morte, vai per la tua strada, senza paura. E’ una canzone brasiliana di Vinicius de Morae e Toquinho e Sergio Bardotti.
La paura c’è. Ci attraversa. E’ un tratto distintivo del nostro tempo. L’unico modo per non esserne sopraffatti è farci i conti ed affrontarla. E sortirne assieme.
Stefano Tassinari, Santino Scirè, Paola Villa, Andrea Luzi, Roberto Rossini, Matteo Bracciali. 

Grazie. E avanti




#piugiusto esiste dal 17 ottobre.


In un mese (circa) abbiamo pubblicato 48 post e 13 commenti. In cui possiamo rintracciare veramente un universo di “autori vari”.
Uomini e donne, giovani ed anziani, dirigenti e soci e lavoratori. Gente “di palazzo” e “di periferia”. Di associazione madre, associazioni specifiche ed imprese. Nord, centro, sud. E pure chi, da fuori, ha voglia di collaborare. Segno del patrimonio di cui le Acli dispongono. E che bisogna trovare i modi di valorizzare. 
In un mese ci sono state 8841 visite.
E 3231 visitatori.
E a voler fare al volo una prima analisi delle parole esce così:
Noi, a caldo, siamo  contenti di aver avviato questo processo e di come fino ad ora si è sviluppato.
E ringraziamo tutti coloro che in varia forma online ed offline hanno partecipato e seguito.
Il nostro obiettivo ora è comporre un contributo che rispetti e valorizzi i punti di vista diversi e continui ad arricchire il dibattito.
Ci prendiamo un tempo minimo per lavorarci perché, appunto, il futuro ancora non esiste. Va creato.
Ma una cosa è certa. Non finisce qui.
Grazie. E avanti.
Stefano, Santino, Paola, Andrea, Roberto, Matteo.

Il futuro non esiste, va creato



di Matteo Bracciali – Coordinatore Nazionale Giovani delle ACLI
Quale futuro vogliamo per il nostro Paese?
Se non rispondiamo a questa domanda, tutto quello che abbiamo pensato sul futuro della nostra associazione e’assolutamente inutile, autoreferenziale, passatista. Ma non perche’ ci sia qualcosa di male in quello che siamo stati, anzi. Ma perche’ non piu’ riproducibile.
L’esempio piu’ calzante e’ proprio la nostra unita’ di base, il circolo. 50 anni fa, era la risposta a due domande: aggregazione, in un tempo in cui era l’unico luogo di incontro della comunita’, e tutela, quando la chiave valoriale che rappresentiamo era sufficiente per generare appartenenza.
Penso che ancora oggi quel modello tradizionale sia strategico, ma il presente lo ha superato; su come sia cambiata l’aggregazione non mi dilungo, ma e’ evidente che non siano piu’ solo i luoghi fisici quelli da presidiare in modo capillare. Sulla tutela e sull’appartenenza mi fermo un attimo: la tutela diventa soluzione del bisogno materiale di una persona (purtroppo sempre piu’ spesso solo questo) e la nostra base valoriale diventa fondamento per la scelta del bisogno e della soluzione. Su questo abbiamo una grande opportunita’ per ricostruire appartenenza.
Siamo riconosciuti dalle nostre comunita’ nella misura in cui riusciamo ad incidere nella quotidianita’ della vita delle persone. E diventiamo riferimento politico non per la C o per la L del nostro acronimo, ma per la capacita’ di incarnare i nostri carismi in risposte concrete, misurabili e a tempo alle necessita’ del nostro tempo.
Il futuro sara’ sempre piu’ dematerializzazione dei rapporti e il nostro carisma sui servizi di comunita’ e di sostegno potrebbe avere una chiave di sviluppo molto interessante: riuscire a tenere insieme la modalita’ online per la costruzione di reti di relazione e quella offline per l’offerta di servizi che saranno sempre piu’ ad alto impatto sociale, come la cura di chi rimane solo, il sostegno alle dinamiche familiari sempre piu’ flessibili (o precarie, per verita’) e l’orientamento alle opportunita’.
Questo non significa perdere politicita’, tutt’altro. Ma non possiamo pensare di esprimerla solo dentro agli organi dell’associazione. I partiti, proprio per l’incapacita’ di tenere insieme idea/azione non esisteranno piu’ tra qualche tempo, per essere sostituiti da contenitori di individui anzi, di individualita’. Il nostro ruolo sara’ determinante nella promozione di una societa’ solidale, giusta ed accogliente se saremo capaci a rendere coerente sempre di piu’ la nostra azione sociale e la nostra capacita’ di elaborazione politica. Mi soffermo un attimo su questo punto.
Siamo dotati di una rete territoriale formidabile fatta di persone che non solo vivono l’associazione, ma sono opinion leader locali che possono costruire, per un pezzetto, reti e visibilita’. Abbiamo competenze e strumenti per essere protagonisti del mainstream di questo Paese, ma siamo troppo tradizionali nella costruzione delle campagne di opinione che promuoviamo. Ed il rischio e’ molto alto: quello di non essere piu’ un movimento popolare, ma identificato come una elite culturale, aggrappata al proprio passato, lontana dal dibattito pubblico.
Piu’ orizzontali, piu’ semplici, piu’ ACLI. A queste sfide si risponde con una rivoluzione organizzativa. Abbiamo bisogno di un soggetto economico e politico territoriale di riferimento che abbia capacita’ di lettura del contesto, elaborazione di soluzioni, gestione dei servizi erogati. Autonomo, ma accompagnato dal livello nazionale per evitare derive che la nostra associazione purtroppo ha gia’ vissuto. Abbiamo bisogno un organo di governance nazionale formato e snello in grado di dare indirizzi nei tempi di vita delle persone e non piu’ nei tempi delle ACLI. Abbiamo bisogno di persone che si appassionino alle nostre scelte, che sottoscrivano i nostri appelli, che partecipino alle nostre campagne d’opinione. C’e’ bisogno di piu’ societa’ e noi siamo la risposta. Perche’ il futuro non esiste, va creato.

Il gioco collettivo riesce a far emergere i pregi di ognuno

Chiedo scusa dal principio, perché più che un discorso sensato, il mio sembrerà un flusso di coscienza, che viene dalla pancia…la pancia di una persona che vive le acli da dipendente e non da aclista.
Da ex-giocatrice di pallavolo incallita, credo che la metafora degli sport di squadra possa offrire degli spunti (sicuramente banali, ma probabilmente che proprio per questo a volte restano solo sottointesi) di riflessione sulla metodologia del cambiamento a cui le ACLI aspirano.
Julio Velasco, ben lungi da ragionamenti moralistici, dalla sua posizione di dirigente di una squadra di calcio, sosteneva che il “gioco di squadra” diventa fondamentale in una società cosi competitiva, globalizzata e individualista; ma sottolineava anche che il mero “tutti per la causa” non è sufficiente. Tattica, condivisione degli obiettivi e dei risultati attesi, rispetto, fermezza e consapevolezza dei limiti e dei pregi, sono gli elementi fondamentali per un gioco di squadra vincente.
E’ chiaro che in questo momento storico di mutazioni sociali e di evoluzione delle priorità collettive ed individuali, le ACLI hanno bisogno di ritrovare la propria dimensione nella e per la collettività.
Ma quali sono le sue tattiche, i suoi obiettivi? I pregi, i difetti? Si riesce a mettere insieme i pezzi e definire una strategia condivisa, anzi, condivisibile?
Prendendo spunto dal lessico della progettazione, quali sono i suo obiettivi specifici, i risultati attesi e gli indicatori oggettivamente verificabili e misurabili, la sua strategia? Perché forse di un progetto si tratta e come tale ha bisogno anche di partner per la realizzazione, sia interni che di altri “portatori di interesse” che non necessariamente gravitano nell’universo ACLI.
Ma a parte tutto, senza una guida chiara ed un gioco ben delineato, conosciuto e condiviso da tutti, e non solo dall’allenatore, non si va lontani. Il gioco di squadra non è “il capo pensa e i giocatori eseguono”; un buon allenatore “costruisce un gioco in collaborazione con i giocatori”, fino a quando i giocatori arrivano al punto di sapersi muovere per conto loro perché conoscono la tattica.
In diversi post si è fatto richiamo alla pluralità delle ACLI che spesso si fa fatica a “governare”, o meglio, sulla quale a volte non si riesce a far sintesi, o che comunque apre la strada a doppioni, scarsa efficacia degli interventi, autoreferenzialità, ecc., ecc. Di nuovo: quale sarà la tattica dell’”allenatore” delle ACLI? I “giocatori”, i pezzi delle ACLI fino a che punto sentono di poter o voler collaborare alla costruzione della tattica?
Certo, il lavoro di costruzione e condivisione è difficilissimo, soprattutto nell’universo mondo delle ACLI, ma sempre prendendo in prestito le parole di Velasco, “le difficoltà non devono essere viste non come un qualcosa che ti impedisce di fare, ma come la possibilità di allenarsi a superarle”. Il tutto spinti da valide motivazioni, che definirei in primis basilari, cioè i valori delle ACLI, poi economiche (non nascondiamocelo) ed infine “la sfida”.
E’ indubbio che chi fa le ACLI è mosso da una condivisione dei valori e della mission, e che ci siano persone a cui piace fare quello che fanno. Ma siamo sicuri che questo basti?
Ad esempio, il “lavoro” immagino sia (fino a prova contraria), ancora uno dei punti fermi dell’Associazione, ma siamo sicuri che sia ancora profondamente rispettato? Siamo sicuri che tra le priorità dell’allenatore ci sia ancora il miglioramento delle condizioni lavorative e dell’ambiente di lavoro? Che il lavoratore non sia una mera risorsa che ha un costo o che il lavoratore consideri il proprio posto di lavoro solo come una fonte di reddito? Dove sta qui il valore aggiunto di quello che si fa rispetto ad una semplice azienda?
Non demonizzo assolutamente la strada aziendalista che l’Associazione può voler intraprendere, anzi, che a tratti ha già intrapreso; mi interrogo solo sul contesto valoriale in cui ci si vuole muovere.
Ultima tra le motivazioni c’è “la sfida”, motivazione che personalmente sento molto: credo che per “rinascere” ci sia un gran bisogno di sentirsi parte di qualcosa che vada al di là della routine, di competere per una impresa straordinaria”.
Quale sarà l’impresa straordinaria delle ACLI?

A quattro mani


Di Mauro Platè e Cristiana Paladini 
Un post a quattro mani, qualche spunto di riflessione condivisa sull’associazione, perché le Acli ci hanno accompagnati in questi anni di esperienza associativa, di crescita professionale (in modo diverso per ognuno), ma anche di vita familiare, facendoci maturare l’idea di un’associazione in cui sia possibile, e proficuo anche, desiderandolo, impegnarsi come soci e lavoratori e trarre da ciò un arricchimento. 
Anche se le peculiarità della nostra esperienza non sono generalizzabili, siamo convinti che un tipo di coinvolgimento che tessa insieme dimensione relazionale, territorio e professionalità, rappresenti per l’associazione un punto di forza da valorizzare, non solo per le potenzialità (unite, inevitabilmente, ad alcuni limiti) che tale integrazione contiene, ma soprattutto in virtù delle possibilità di conoscenza e radicamento nelle comunità che questa modalità porta con sé e le conseguenti ricadute sul lavoro e soprattutto sulla progettazione.
In contesti dinamici in rapita evoluzione, che da un lato pongono vincoli stringenti sulle risorse e dall’alto sono caratterizzati da una domanda sociale crescente, le comunità meglio attrezzate sembrano essere proprio quelle in grado di interpretare la programmazione non strettamente come gestione di un budget predefinito ma come capacità di offrire strumenti per la connessione ed integrazione di reti e risorse, di conoscenze e bisogni inespressi. 
Se le Acli hanno l’ambizione di porsi come attori coprotagonisti della promozione sociale sul territorio, in contesti complessi in cambiamento, questa apertura ad una programmazione partecipata e integrata nei luoghi, attraverso anche le persone e le loro relazioni, non può essere considerata secondaria.
Abbiamo visto aclisti “vecchi” e nuovi, in Italia e all’Estero, per il Servizio Civile, come collaboratori, come personale espatriato, per esperienze di volontariato, giovani (ci sono ancora i giovani intorno alle Acli), e non solo. Ma cosa succede dopo? Quando termina il rapporto lavorativo, o l’esperienza di volontariato, quando per motivi diversi le strade si dividono, in modo consensuale o meno, cosa rimane? Molti si sono allontanati perché hanno preso strade diverse, perché il legame associativo oggi, lo sappiamo, si fa più fluido e momentaneo, a spot, ad evento.
Alcuni sarebbero rimasti, alcuni avevano energie, competenze, esperienza per accompagnare il cambiamento di cui si parla. Abbiamo visto anche meno giovani, che in Acli hanno passato più di mezza vita, che hanno costruito relazioni, ponti, progetti, investito energie e tanto tempo. Li abbiamo visti andare via, perché in un momento di crisi associativa erano difficili da ricollocare.
Conosciamo cosa significa lavoro in tempi di crisi ed incertezza, siamo la generazione nata negli anni di piombo, quella dei giovani universitari del duemila, della speranza implosa dei movimenti e del ritorno alla partecipazione, la prima generazione di giovani adulti che ha conosciuto il precariato come forma di lavoro permanente. Eppure ci siamo convinti che un’associazione “cristiana di lavoratori” possa essere più di un luogo a cui dedicare qualche ora di lavoro e questa convinzione è nata proprio dalle persone e dai soci lavoratori che abbiamo incontrato. 
In tal senso forse è necessario ragionare non solo su chi resta, ma su chi si allontana, sull’uscita di quanti hanno vissuto le Acli ed hanno contribuito in maniera differente a traghettarle nel presente. Se, come ci ripetiamo da anni, gli individui non sono numeri, è necessario riflettere sulle vie possibili di mantenimento dei legami. Per non perdere risorse, per non sprecare innovazione e competenze acquisite ma soprattutto, perché sono quelle persone, le loro esperienze, le reti che attivano ed hanno attivato a dare radicamento al progettare e corpo al rinnovamento.

Contro il realismo, la rivoluzione



di Enrico Fiori – Vicepresidente ACLI Toscana
Lo scorso 10 Novembre è deceduto all’età di 96 anni Helmut Schimtd, Cancelliere della Germania Ovest dal 1974 al 1982.Con lui scompare uno dei massimi esponenti della socialdemocrazia tedesca ed europea, un movimento politico-culturale che ha cercato di conciliare l’accettazione della democrazia parlamentare e del modello economico basato sulla proprietà privata e sul libero mercato, con la costruzione di uno stato sociale avanzato.
Schimtd fu uno dei protagonisti del Congresso di Bad Godesborg del 1959 in cui la SPD tedesca eliminò ogni riferimento al marxismo per adottare un programma di governo incentrato sul varo di una serie di riforme tese a rafforzare il mercato libero, la concorrenza effettiva, la libertà nelle sue varie forme. La socialdemocrazia tedesca ed europea ha dunque da tempo abbandonato le suggestioni rivoluzionarie per cercare di correggere le storture più evidenti del sistema capitalistico, senza attaccarne i fondamenti.
Capovolgendo uno slogan del ’68, il motto sembra essere “Siate realisti, chiedete il possibile “. Oggi il Papa chiamato “dalla fine del mondo” con parole e gesti significativi sembra mettere in discussione questo schema, in base al quale il capitalismo è una realtà comunemente e positivamente accettata. Questa traccia di riflessione proposta da Giovanni Bianchi durante l’ultimo Incontro di Spiritualità di Camaldoli, merita di essere approfondita.
Innanzitutto non dobbiamo dimenticare che Bergoglio è cresciuto nel cammino pastorale e teologico della Chiesa latino-americana che già a Medellin nel 1968, a Puebla nel 1979 e a Aparecida nel 2007 ha affermato l’opzione per i poveri e la necessità della loro integrale liberazione. E oggi che è Vescovo di Roma insiste su questo punto,affermando “che esiste un vincolo inseparabile tra la nostra fede e i poveri” (EG48). Ma l’approccio di Papa Francesco non è soltanto caritatevole, bensì mira ad affrontare le cause strutturali della povertà: “Così come il comandamento” non uccidere” pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire “no a un’economia dell’esclusione e della inequità”. “ Questa economia uccide” (EG48). E’ innegabile che si tratta di un pensiero critico che non punta ad ottenere dei semplici aggiustamenti, ma è diretto prefigurare un nuovo sistema economico.
Mentre politici ed economisti parlano di PIL e si interrogano su come rimettere in moto la macchina dei consumi, Bergoglio si batte contro una società che “riduce l’essere umano ad uno solo dei suoi bisogni: il consumo” (EG55), pressanti gli inviti a vincere la  “globalizzazione dell’indifferenza” e la “cultura dello scarto”.
Ma anche quando parla di altre tematiche, come ad esempio quella del lavoro, il Papa torna sempre al nodo di un’economia ingiusta e distorta. Parlando agli operai di Terni a proposito della disoccupazione, ha scandito: “ E’ la conseguenza di un sistema economico che non è più capace di creare lavoro, perché ha messo al centro un idolo, che si chiama denaro! “ E’ la spinta a questo poderoso cambiamento di pensiero e di strutture viene dalla fede, una fede che non è fatta di comode sicurezze, ma è rivoluzionaria come ha detto a Firenze e a Cuba.
Per inciso, nell’isola caraibica ha dichiarato: “ La nostra fede passa attraverso la tenerezza!” dimostrando di non temere che le sue parole venissero accostate a quelle di Che Guevara, il quale esortava a essere “ rivoluzionari senza perdere la tenerezza !”. Con l’enciclica “Laudato sì” Papa Francesco fa un ulteriore passa in avanti, unendo il “grido della terra”.
Si stabilisce così una sintonia fra l’oppressione dei poveri e lo sfruttamento selvaggio del pianeta, un tema ricorrente nelle ultime riflessioni della Teologia della Liberazione: “ I gemiti di sorella terra…. si uniscono  ai gemiti degli abbandonati del mondo”. In definitiva Bergoglio sembra non considerare il capitalismo come prospettiva ineluttabile per l’umanità e forse nemmeno auspicabile. Il  compimento del destino umano non risiede in un sistema capitalistico che schiaccia le persone e devasta la Terra. La situazione attuale non è una tragedia annunciata, ma una sfida perché sappiamo prenderci cura della casa comune e del bene comune.

Non voglio fare il dirigente!


un aclista
Ho letto il post dal circolo, mi ci sono molto riconosciuto ma, non essendo più così nuovo, mi è venuta voglia di aggiungere un passaggio alla riflessione.
Sono abbastanza giovane (almeno per gli standard delle Acli, il che vuol dire che ho superato i 35 ma sono sotto i 50). Cerco di darmi da fare in molte cose nel circolo. Non sono troppo litigioso. Ed ho partecipato con piacere a qualche iniziativa formativa provinciale.

Credo sia per questi miei aspetti che negli anni ogni tanto mi è capitato che mi fosse proposto di ricoprire qualche carica all’interno delle Acli. Ma, almeno finora, ho sempre declinato l’invito procurando negli altri qualche stupore e un po’ di disapprovazione (come se il mio essere disponibile “per la causa” non fosse “completo”).

Perchè ho declinato?
1. Non ho tempo e il poco tempo che ho vorrei dedicarlo a cose che mi interessano.
2. Non ho particolari competenze di amministrazione e invece dando disponibilità da dirigente mi troverei addosso l’essere datore di lavoro di altre persone e responsabilità economiche e legali gravose.
3. Non mi pare che i dirigenti Acli che conosco siano persone particolarmente serene e felici e (siccome molti di loro sono persone oneste e piene di buona volontà) ho il timore che potrei anche io “ridurmi così”.

Ma, soprattutto, ogni volta che mi è arrivato l’invito ho avuto l’impressione che fosse una specie di “siccome non c’è nessun altro, se puoi fare tu”. Non ho mai avuto l’impressione che ci fosse un reale interesse per me, le mie idee o quello che io potrei portare. Non ho mai avuto l’impressione che si pensasse che io ero la persona adatta. La persona adatta era chiaramente altro ma, siccome non c’era di meglio… potevo andare bene anche io…

E non era un invito a condividere un grande sogno o un grande ideale. 
Era l’invito a farsi carico del peso della gestione di una struttura pesante. 
Forse le Acli dovrebbero riflettere anche su come fanno quella che chiamano “proposta associativa” e su come avvengono i percorsi e le proposte per diventare dirigenti.

L'idea di popolo nelle origini delle Acli


un aclista
Il Papa ha ricevuto nella sala Clementina i partecipanti alla conferenza promossa dalla Fondazione Romano Guardini nel 130° anniversario della nascita dell’illustre uomo di pensiero.
Non so quanti lo sanno ma la notizia ha un rilievo per le Acli.
Romano Guardini, negli anni ’40 del secolo scorso, è stato uno dei principali interlocutori dell’allora Mons. Montini nei contatti che hanno portato alla nascita delle Acli  e alla coraggiosa iniziativa della loro partecipazione alla CGIL unitaria. Solo gli apporti di uomini con grandi capacità di pensiero potevano rendere possibile una scelta così ardimentosa.
Papa Francesco nell’udienza ha affermato che “Romano Guardini, è un pensatore che ha molto da dire agl uomini del nostro tempo, e non solo ai cristiani”. 
Ed anche che  “Per Guardini, l’unità vivente con Dio consiste nella relazione concreta delle persone con il mondo e con gli altri intorno a se. Il singolo si sente intessuto in un popolo, cioè in una unione originaria degli uomini che, per specie, paese ed evoluzione storica nella vita e nei destini sono un tutto unico (da il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, pag 21-22). La sua concezione di popolo si distingue nettamente da un razionalismo illuministico che considera reale soltanto ciò che può essere colto dalla ragione e che tende a isolare l’uomo strappandolo dalle relazioni vitali naturali. Il popolo , invece, significa il compendio di ciò che nell’uomo è genuino, profondo, sostanziale. Possiamo riconoscere nel popolo, come in uno specchio, il campo di forze dell’azione divina (da il mondo religioso in Dostoevschij pag 321)”.
Mi sembrava interessante da segnalare a segno che l’intreccio tra Acli e idea di Popolo affonda già dalle radici delle Acli.                                                                                                                                

Troppe Acli


di Maurizio Pierdomenico
Parlare di troppe Acli mi sono accorto, può generare perplessità. Chiariamoci.
Non intendo troppa presenza delle Acli, anzi, ma troppe articolazioni del sistema che rischiano, se già non lo fanno, di generare duplicati sia di attività/servizi sia di ruoli che di impegni che di soldi.
Alcuni esempi concreti: Acli donne e Acli giovani, perché? Perché le donne ed i giovani devono avere una ulteriore struttura con organi associativi e, (ricordo) presidenze, consigli, riunioni…?
Non possono semplicemente portare la loro voce nelle Acli ? Oppure abbiamo così paura o così poca voglia di ascoltarli che facciamo in modo che stiano in un spazio isolato? E’ chiaro che è una provocazione. Ma non solo.
Altro esempio, anche se non è direttamente Acli  ma si muove al nostro interno, la Lega Consumatori. Sono cittadini che arrivano, magari passando attraverso il Patronato o il CAF,  poi da lì vengono indirizzati alla Lega. Dove viene proposta una nuova tessera, incontrano nuovi operatori… E poi la Lega deve organizzare i propri organi direttivi e così via. Non basterebbe, ad esempio, uno sportello consumatori legato al Patronato?
Uno dei principali problemi dell’associazione è la presenza di troppi organi associativi. Nel mio specifico mi trovo a dover occupare cariche che poi non riesco a seguire come vorrei, solo perchè non si trovano persone che lo facciano. E solo perchè se non si tiene in piedi un organo direttivo poi si scompare…
E poi ognuno deve avere il proprio conto corrente bancario. E mi trovo costretto a tenere aperti più conti per movimenti che magari non superano i 150 euro l’anno, spendendo solo per tenuta del conto 130 Euro. E quindi poi così si va anche in rosso…
Mi chiedo da tempo. A che serve tutto ciò?
Troppi impegni, troppi incarichi formali, alla fine distolgono le energie dall’essere e fare le Acli. Ovvero dal tessere rapporti sociali e di sostegno a chi ha bisogno. Comporta il distacco dal famoso e fin troppo spesso citato “territorio”.
Azzardo, ma… è un po’ come la Chiesa che se si fa prendere da troppi orpelli perde di vista i deboli e quelli che le stanno attorno.
E poi, chiedo scusa se sono lungo, da tempo avverto anche un crescere di atteggiamenti autoreferenziali, di piccolo potere, cose che nulla hanno a che vedere con la missione delle Acli e con il messaggio cristiano in esso contenuto.
Infine, ci vogliamo fare una domanda? Come si sostengono le Acli? Solo con le tessere non si va lontano. Ma allora, realmente, quale è la proposta? 
Nei fatti oggi i servizi sono la risposta al bisogno economico delle Acli. Ma poi a volte vivono un distacco e una contrapposizione forte rispetto all’aspetto associativo. Sono in un mondo tutto loro e vivono l’associazione (e il relativo sostegno economico) solo come un obbligo e non come una partecipazione. E in tempo di crisi non sarà meglio.

Mi chiedo, le Acli si ricordano di noi?


una socia Acli 
Seguo spesso i post di #piugiusto cercando di apprendere sempre più del mondo Acli, per me ancora da scoprire.
La struttura di base di cui faccio parte è recente e abbiamo fortemente voluto dare una connotazione aperta al sociale. L’anno scorso abbiamo avviato una serie di progetti nelle scuole, in parte sovvenzionati dai genitori e in parte dal Comune. Il primo anno è stato certamente di rodaggio ma anche di gratificazioni….
Le Acli che vorrei… Ci abbiamo pensato spesso. Ne abbiamo parlato tanto. Abbiamo tutti insieme, noi del circolo, studiato tanto il sistema Acli. Abbiamo analizzato il territorio, ci siamo confrontati con le altre associazioni, giornate a discutere tra noi e a discutere con le dirigenti scolastiche, con altri… E poi ci siamo buttati, con tutto il cuore, in una serie di progetti… E siamo stati anche bravi. Alcune opportunità si sono aperte. Alcune attività saranno finanziate…
Le Acli che vorrei…mi sarebbe piaciuto condividere progetti, fatica e risultati con altri circoli, con il provinciale, con altri pezzi di Acli. Per confrontarci, per permettere a tutti noi (strutture di base) di avere opportunità per crescere.
In realtà non abbiamo trovato grandi forme di collaborazione. Le relazioni sembrano tutte ingarbugliate in equilibrismi politici che a noi, braccia operative, non interessano. Vorremmo non esserne sfiorati per poterci dedicare ad altro, invece ci soffocano.
Andiamo avanti lo stesso. E nell’ottica di ampliare sempre più la nostra rete di relazioni abbiamo pensato al tesseramento come un primo passo per coinvolgere, per aprirci agli altri, per diventare punto di riferimento sul territorio.
E abbiamo accolto con un boato di gioia l’opportunità di “Mettiamo in circolo lo sport”. Per la possibilità dei fondi ma anche per la possibilità di fondere l’identità APS e quella EPS semplificando e riducendo i costi rispetto al passato.
Ma poi ci interroghiamo sulla composizione del costo della tessera e sulla distribuzione dei fondi che dalla tessera arrivano. Con che criterio si fanno le scelte? Non è una questione solo economica. E’ il sintomo di una realtà che non vuole crescere e cambiare.
Io non sono arrivata alle Acli per fare le Acli. Ho trovato le Acli perchè mi sembrava un’opportunità per fare attività sociale. Ma quando propongo un progetto nuovo mi chiedo sempre se è in linea con le finalità delle Acli. Quando mi rapporto con le altre associazioni e istituzioni prima di presentarmi io presento sempre le Acli. Con i soci che si impegnano ricordo sempre che loro rappresentano anche le Acli.
Ma poi mi chiedo se le Acli si ricordano di noi. Noi soci (volontari attivi o meno). Non siamo solo un numero, ma persone. E se la vera ricchezza delle associazioni è la partecipazione serve ricordarsi anche di noi.
Che si parli di problemi, energie, progetti, idee, fondi… Le Acli per ripartire devono mettere al centro una parolina: CONDIVISIONE.

Non fare qualcosa al suo posto


di Simona Brambilla 
A proposito della relazione tra operatore ed utente dei servizi. Stamattina un signore di 78 anni semianalfabeta si è presentato allo sportello per chiedere la cittadinanza italiana (sì, 78 anni, e non è l’unico).
Ha passato la mattina ad andare e venire: ha recuperato un documento necessario in comune, è tornato da noi a vedere se andava bene, è uscito di nuovo per andare in posta, poi è tornato da noi a fare il punto di cosa mancava, prima di uscire di nuovo verso l’inps.
Ogni volta che tornava, mi trovava immersa in compilazioni di moduli, scansioni e registrazioni per la sua pratica.
Mi ha sorriso e mi ha detto: “Lei lavora ed io lavoro”.
Mi è sembrato molto bello, sentivo che il mio lavoro di operatrice non era solo di fare qualcosa al posto suo, ma di aiutarlo ad attivare le sue risorse.
Una relazione attiva tra operatore e utente, non passiva; costruttiva per entrambi; complementare.
Spesso non è così (anche nel rapporto operatore/utente di conflitto ce n’è, eccome… e spesso è difficile da gestire!) ma quello di oggi è stato un bel momento, uno scorcio dell’obiettivo verso cui tendere.

Il punto di rottura


di Eleonora Manni
Il mio contributo voleva essere analitico e propositivo; poi mentre traducevo in parole scritte i miei pensieri, domande su domande mi si ponevano. E non a tutte ho saputo dare una risposta. Quindi provo a condividerle con voi.
Quando penso alle ACLI verso il cambiamento, mi viene in mente l’immagine dell’Esodo degli Ebrei dall’Egitto: una grande massa di persone in movimento.Aldilà dell’immagine biblica evocativa, credo che innanzitutto dovremmo considerare la nostra associazione proprio per quello di cui è costituita: un (grande) gruppo di persone che tendono verso un obiettivo (il bene) comune. Spesso ce ne dimentichiamo e questo ci allontana dal centro della questione, soprattutto oggi, in questa nostra fase storica, in cui siamo ad un punto di rottura. E non parlo di conflitto o divisione; uso il termine rottura in un’accezione positiva, poichè tutto intorno ci dice che la nostra associazione non può rimanere statica com’è.
Anzi, recepiamo molteplici sollecitazioni dall’esterno (ma anche dall’interno!) di movimento ed evoluzione: si, ma dove? E come? Cosa portare con noi? Cosa lasciare?
Innanzitutto non dobbiamo dimenticare le nostre radici, la nostra storia e il nostro modo di “sentire le cose”. Questi sono fattori che ci rendono una realtà unica e che nel tempo ci hanno garantito di essere collante nella nostra mutevole società. Ma non bastano.
In questi anni, ci siamo dimenticati che siamo un sistema organizzato, ed un sistema come il nostro deve essere caratterizzato da un forte legame, da una collaborazione, da una mission condivisa, il tutto prevedendo anche buone prassi. Invece, molto spesso, il pensiero era comune e trasversale in tutti i settori, ma le azioni che ne conseguivano erano disomogenee, con la conseguenza di dispendio di energie e perdita (in alcuni casi) di persone (soci e non solo), che non si riconoscevano più nella nostra associazione.
Non solo: a questa perdita dobbiamo aggiungere che non siamo stati in grado di attrarre nuove persone che volessero far parte delle ACLI; quando uso l’aggettivo “nuovo” non penso solo a giovani leve e al ricambio generazionale che ci manca totalmente, ma penso anche alla novità di pensiero, all'”altro” con cui confrontarci.
Ecco, il confronto: un altro fattore che stiamo lasciando venir meno. Facciamo in modo che tutti i momenti democratici che segnano la nostra vita associativa siano pieni di confronto e non passaggi dovuti e statici. Anche questo fa parte del cambiamento.
Quest’ultima considerazione mi fa sorgere un nuovo interrogativo: quand’è che siamo diventati stanchi, impolverati e fermi? Perchè non siamo stati in grado di sviluppare nuovi percorsi e nuovi linguaggi per restare tra la gente? Quando è iniziata la fase dell’autoreferenzialismo?
Noi che nel tempo siamo stati interpreti dei bisogni della comunità e le abbiamo dato voce, ora non sappiamo più farci riconoscere e scegliere dalle persone, che vengono alle ACLI per i nostri servizi ed ignorano o scelgono di ignorare tutte le opportunità che si celano dietro il nostro acronimo.
Non sto puntando il dito contro il Patronato e il CAF, anzi. Se siamo ancora qui a dire la nostra è proprio perchè i servizi ci hanno dato modo di rilevare i bisogni, interpretare gli animi e concordare strategie per il futuro. Inoltre, ritengo che gli operatori che vi lavorano svolgano una vera e propria “mansione di cura” nei confronti della nostra utenza, che molto spesso non è facile.
Ecco che qui nasce un altro fattore che non dobbiamo sottovalutare in termini di cambiamento: non esiste l’associazione senza servizi e non esistono servizi senza l’associazione. Come far coesistere questa dicotomia e metterla in rete con tutte le realtà che ci compongono?
È complesso, ma chi ha costituito le ACLI nel 1944 aveva già previsto che tutte le nostre diverse componenti si sviluppassero e formassero una rete, basta leggere l’articolo 3 del nostro Statuto.
La totale assenza di rete tra Associazione, Servizi Sociali e Associazioni specifiche ci rende immobili nei processi di governance e minano la nostra sopravvivenza come sistema articolato. Rete tra di noi, ma anche rete con gli attori sociali(competitors e non) per non rimanere isolati e per metterci in discussione, altro fattore che spesso ci manca.
Inoltre, cambiare potrebbe anche voler dire rinuciare a soggetti sociali creati al nostro interno per rispondere a delle esigenze storiche che ora non persistono più e che attualmente, invece, costituiscono sovrastrutture pesanti e prive di senso. Il cambiamento passa anche dal dare un taglio netto ai rami secchi, affinchè possano nascere nuovi germogli.
Infine, non smettiamo mai di porci delle domande, come sto facendo io oggi, perchè se diamo tutto per scontato e pensiamo di navigare sempre in acque tranquille, c’è qualcosa che non va. Dobbiamo essere innanzitutto i pungolatori della nostra associazione e delle nostre realtà e insieme trovare le risposte.

Trasfigurare oggi le Acli alla luce del Vangelo


di Francesca Costero 
Il 5° Convegno Nazionale Ecclesiale di Firenze ha contribuito molto alla riflessione sul cammino della Chiesa oggi e, fornisce preziose indicazioni sulla strada che le Acli devono percorrere soprattutto in vista della verifica del quadriennio passato e della progettazione di quello futuro. Alla luce delle 5 vie, come le Acli debbono porsi per il loro rinnovamento?
La prima via che ci aiuta è il Trasfigurare. Riprendendo le schede preparatorie dei lavori di gruppo di Firenze 2015 abbiamo una suggestione forte per il cambiamento interno dell’associazione e soprattutto per la proiezione esterna: «Trasfigurare è uno sguardo di fede, uno sguardo “altro” sulla realtà dell’umano, del mondo e della storia. Trasfigurare significa umanizzare il più possibile l’umano e tutto ciò che esiste, il creato intero, secondo la misura, la statura e la figura di Cristo Gesù crocifisso e risorto, speranza del mondo.» Per questo “trasfigurare” rappresenta la sintesi delle quattro vie del Convegno di Firenze: Uscire, Annunciare, Abitare, Educare.
L’Uscire non è funzionale, piuttosto è strutturale per l’identità delle Acli poiché comporta, dapprima un discernimento comunitario che non è mai fine a se stesso, ma orientato all’incontrare e all’accompagnare, che attiva una capacità di simpatia e di empatia profonde con la storia concreta delle persone, nella sua ricchezza e fragilità.
Annunciare significa agire, decentrarsi, aprirsi a tutti: l’ascolto meditato e pregato del Vangelo che permetterà allo Spirito Santo di portare le Acli sulle strade degli uomini, per incontrare le fragilità dell’umano, negli incroci dei sentieri della vita in un percorso fatto di vicinanza, accoglienza, incontro, accompagnamento e condivisione, con grande attenzione alle esigenze dei territori. Mettere al centro il Vangelo significa, per le Acli, essere testimoni della bellezza dell’incontro con Cristo e la croce, formati ed aperti agli altri, diventando umili servitori per amore del prossimo. Alla base del “servizio” o dei servizi dell’associazione, è importante che ci sia il “nutrimento” dello Spirito in modo che, uscendo e incontrando l’altro, gli aclisti siano luce per il mondo con le radici nella Parola.
« Abitare è un verbo che, come viene mostrato anche nella Evangelii Gaudium, non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio. Non si abitano solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni. Non si tratta di qualcosa di statico, che indica uno “star dentro” fisso e definito, ma l’abitare implica una dinamica.»Pertanto le Acli non debbono fossilizzarsi nelle loro sedi, ma abitare il mondo, le città, i paesi in cui si vive, i luoghi di studio, di lavoro e del tempo libero, le famiglie, gli spazi reali e gli ambienti virtuali, ma soprattutto le periferie fisiche ed esistenziali.
Parafrasando l’Evangelii Gaudium, possiamo dire che sogniamo delle Acli beate, sul passo degli ultimi che mettono al centro del loro agire i poveri, i malati, i disabili, le famiglie ferite; “periferie” che, aiutate attraverso percorsi di accoglienza e autonomizzazione, possano diventare centro, e quindi soggetti e non destinatari dell’azione associativa. Sogniamo che i nostri circoli e le nostre strutture siano capaci di “disinteressato interesse”: che mettano a disposizione le proprie risorse per liberare spazi di condivisione. Sogniamo di essere un luogo in cui ciascuno sia destinatario e soggetto di formazione e missione.
E veniamo alla quarta via: l’educazione è lo strumento privilegiato di formazione delle persone, con cui si può crescere per affermare la libertà e la responsabilità, per imparare a comprendere cosa significa cittadinanza attiva e propositiva. Educare non significa esser lontani dall’azione, ma motivarle e fondarle e diviene concretamente sostegno allo sviluppo integrale della persona e non si riduce a mero apprendimento di competenze, seppure soltanto cognitive e strumentali o tecniche.
Mettendo in pratica le 4 vie che trovano sintesi nella quinta, il trasfigurare, si arriva ad una trasfigurazione dell’associazione che implica un cambiamento di modalità e di essere verso l’altro. Trasfigurando le Acli si può realmente essere presenza viva di Cristo verso il prossimo e si serve non essendo un servizio qualunque, ma essendo illuminati dal Vangelo.
« Camminiamo insieme nella costruzione di nuovo umanesimo. Si può andare avanti solo insieme ma per fare questo abbiamo bisogno di essere umili. Solo un confronto dal basso può creare una nuova cultura dove l’altro è visto come una risorsa e una ricchezza, e non come un nemico o una minaccia. Il lato oscuro, l’estremismo e il terrorismo può essere vinto solo lavorando insieme, costruendo ponti e non muri». Izzeddin Elzir, imam di Firenze e presidente dell’Unione comunità islamiche d’Italia (Ucoii)

In principio venne la Thatcher



di Stefano Barbagallo (Acli Como)
In principio venne la signora Thatcher; alla base di tutte le ricette ultra-liberiste, della ritirata dalla gestione da parte dello Stato delle attività economiche e sociali stava un presupposto preciso: tra l’individuo e lo Stato non c’è nulla.
Di fatto è ancora lo stesso assunto che anima l’agire dei nostri principali leader politici del momento, da Renzi, a Grillo e Salvini, tutti in qualche modo continuatori del ventennio berlusconiano: non conta avere un partito di circoli e militanti alle spalle, non occorre impegnarsi a confrontarsi con l’opinione pubblica organizzata, con le associazioni o le organizzazioni di categoria, non si maturano le scelte e le decisioni attraverso il dialogo e la relazione con i portatori di interesse.
Quello che importa è avere le slide da mostrare in televisione, fare in modo che questa parli sempre dei leader e, al limite, mettere in scena una parvenza di partecipazione democratica, si tratti di primarie o di fantomatiche consultazioni on line.
Questa è la domanda più importante: l’organizzarsi dei cittadini in associazioni e gruppi, il fare in modo che persone e famiglie possano in qualche modo avere voce in capitolo nelle scelte e nei comportamenti che determinano la qualità e il senso della loro vita, è ancora vitale oppure è solo un residuo di un passato da lasciarci alle spalle?
Posta cosi’ la questione, per le ACLI la risposta è obbligata: tutta la nostra storia, a cominciare dall’intuizione originale di Achille Grandi, ci muovono verso l’idea che la società civile si costruisce sulle relazioni che le persone, da sole o in gruppi grandi e piccoli, liberamente intrecciano fra di loro, e che la società politica deve avere a cuore e coltivare questo tessuto connettivo indispensabile.
Le ACLI dovrebbero ritornare continuamente a questa consapevolezza, riconoscendo che oggi professionalità e servizi sono indispensabili per dare risposte concrete ai bisogni della società, che la comunità può essere ri-costruita proprio a partire da iniziative che rendano le persone più aperte alla solidarietà, più consapevoli delle proprie scelte e possibilità, più attrezzate a leggere insieme i bisogni e trovare le risorse per soddisfarli.
Si tratta perciò di fare una forte leva sulle esperienze diverse e nuove di servizi e attività sociali delle ACLI, da quelle più tradizionali a quelle più innovative, facendo in modo di coinvolgere nella progettazione e realizzazione del lavoro tutti i soggetti possibili: gli utenti, i militanti e i circoli del territorio, le altre realtà aggregate, i vari portatori di interesse.
L’obiettivo comune dovrebbe essere non la semplice salvaguardia dei posti di lavoro, ma l’essere parte attiva di una comunità che si costruisce nella prossimità ed è in grado di farsi carico del benessere di tutti.
Mi conforta il poter constatare, proprio nella terra della signora Thatcher, nella quale abito da due anni, come questa organizzazione sociale “dal basso” sia molto più viva e vitale rispetto all’Italia: certo molto dipende dalla diversa storia e tradizione culturale, ma indubbiamente sta a dimostrare che, in condizioni economico-politiche tutto sommato simili, “più società” è possibile.

Due giorni


Di fronte a quanto stava accadendo ci siamo fermati per due giorni di silenzio.
Oggi riprendiamo e (per quello che riguarda i contributi in vista del Consiglio Nazionale) chiudiamo mercoledi.
Stefano, Santino, Paola, Andrea, Matteo, Roberto.

Affrontare il vento forte per un orizzonte di senso: il popolo

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Post in 7 paragrafi: 
1. La politica. I rapporti tra noi.
2. L’identità. Noi chi siamo.
3. La fantomatica scelta del gruppo dirigente. Di chi abbiamo bisogno?
4. Orientamenti, tesi e metodo. Cosa vogliamo fare?
5. Girarsi verso il popolo.
6. Una infrastruttura civile immersa nelle comunità.
7. E quindi….
1.
La politica. I rapporti tra noi

Conflitto. Riconciliazione. Unità. Democrazia.
La riconciliazione è una cosa seria. La democrazia pure.
E il conflitto?
In democrazia il conflitto esiste. E’ logico e naturale.
In un’associazione pure.
Non si può scegliere tra assenza e presenza di conflitto.
Si può definire, assieme, in un corpo associativo, con un patto che ci unisce, quali conflitti sono coerenti a mission e valori e quali no.
Si può aver cura di strumenti, modi, tempi da usare nei conflitti.
La democrazia è uno strumento. Ma da sola non basta. Si sa.
E l’unità?
Ci sono unità sferiche che non ci servono.
Ci sono unità che sono più violente dei conflitti.
Unità costruite nel non riconoscimento dell’altro, nell’annullamento del singolo nel tutto, nella resa a ciò che accade, nella non partecipazione, nel non lasciare la libertà.
Riconciliazione è democrazia ben vissuta.
Che accetta la libertà di ciascuno.
Anche quella di dividersi. Anche quella di stare con.
L’unità che ci serve non è la tregua armata. Pronta per la prossima guerra.
Non è la guerra fredda. Equilibrio tattico.
E’ la pace del poliedro, convivialità delle differenze.
L’unità non è data dall’avere un candidato o più.
E’ data dal come.
Concrete pratiche di nonviolenza. Servono.
Ridisegnare le dimensioni dei rapporti tra noi.
Secondo un criterio di giustizia ricercata e non posseduta.
Ed aspirando ad un criterio di misericordia.
Non è un orpello inutile. Non è personalismo.
E’ politica. E’ democrazia. Praticata a partire da noi.
2.
L’identità. Noi, chi siamo? 

Piccole comunità fraterne. Grandi associazioni popolari. Importanti sistemi di imprese.
Ridisegnare le dimensioni dei rapporti tra noi.
Ridefinire la governance di sistema.
Non sono percorsi scollegati.
Come tenere assieme l’aspirazione, altissima e necessaria, ad essere comunità fraterne con la consapevolezza, concretissima, che siamo (anche o prioritariamente?) organizzazioni con una responsabilità, un compito ed uno scopo?
A chi dobbiamo render conto del nostro agire? A noi, reciprocamente o (anche o prioritariamente?) ai soci, ai cittadini?
E’ sempre etico, nei ruoli di responsabilità, attendere rispettosamente i tempi di maturazione del singolo ed assecondare le (umanamente legittime) aspettative ed attese delle persone?
E’ violenza mettere in secondo il bene del singolo se contrasta con ciò che serve all’associazione in quel momento?
3.
La fantomatica scelta del gruppo dirigente. Di chi abbiamo bisogno? 
Servono profeti e condottieri. Senza la pragmaticità dei condottieri non si cammina. Senza la radicalità dei profeti ci si muove senza arrivare da nessuna parte. Compito dei condottieri è anche sapersi circondare da profeti. Servono maestri da ascoltare. Servono leader.
Questo lo scrivevo 3 anni fa. Ma, francamente, oggi credo che ci serva anche superare questo mito. Al momento mi pare che siamo sprovvisti di eroi solitari, figure mitologiche e salvatori della Patria. Il che è un problema, ovviamente, ma è anche un’opportunità. Per cambiare paradigma. Non eravamo noi quelli che volevano la collegialità?
Servono uomini e donne, anche imperfetti. Ma connettori, promotori e accompagnatori di processi. Persone in grado di innescare la generatività, di prendere sul serio la domanda di senso sulle Acli.
Persone con alcune competenze, qualche idea e molta curiosità. Con un rapporto sufficientemente sereno con le decisioni, il consenso, il tempo, il potere e i soldi. O quanto meno in onesta ricerca in questa direzione.
Gente normale che non sconnetta il potere dalla responsabilità, sappia reggere senza scappare la solitudine del ruolo e l’inquietudine del compito che, specie nella prossima fase, sarà pesante, gravoso e persino doloroso.
Serve, forse più di tutto il resto, gente capace di stare in squadra. Di vedere un campo da gioco, costruire uno schema, di passare una palla. Anche, banalmente, di rapportarsi e comunicare. Chiedere aiuto, dire grazie e scusa, quando serve.
E poi servono lavoratori, e soci, e cittadini… Serve ognuno di noi. Che faccia la propria parte.
Dopo di che, si, serve pure un Presidente. Perché anche la collegialità ha bisogno di ruoli chiari. E il Presidente non deve essere per forza il più forte, il più bravo, il più potente, il più carismatico, il più guerriero. Ma deve essere in coerente sintonia con tutto il resto. E farsene carico per primo e più degli altri. E avere cura del senso, dell’ associazione, del gruppo e del processo. E nella scelta del gruppo e del presidente, non servono né veti nè pre-definizioni di poteri di posizione.
4.
Orientamenti, tesi e metodo. Cosa vogliamo fare? 
Cercare, assieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà, risposte alle domande.
Dialogare, che non è negoziare, per il bene comune.
Tra noi, dirci, che un nuovo sistema di relazioni fa parte dell’idea di associazione che vogliamo costruire, del paese che vogliamo abitare, della chiesa che vogliamo essere, della politica come la vogliamo intendere. E di fronte a tutti, riconoscere che non abbiamo la maturità umana, civile, spirituale, personale e associativa per arrivarci, oggi. Ma che per questo ci mettiamo in cammino.
Riconoscere che tutto questo non ha senso, di per sé. Perché raggiunge solo l’obiettivo minimo di far star meglio noi e non scandalizzare gli altri. Per cui:
Serve togliere dal centro della nostra attenzione noi stessi. E persino il nostro legittimo tentativo di costruire una nuova dimensione di rapporti tra noi. Serve tornare a vibrare, profondamente, nelle viscere non per le ingiustizie e i torti tra noi, ma per il popolo e la sua lotta di liberazione (comunque la si voglia chiamare).
5.
Girarsi verso il popolo
Il popolo non esiste in natura. E’ un divenire. Farsi popolo.
Popolo è la cittadinanza impegnata, riflessiva, consapevole ed unita in vista di un obiettivo o un progetto comune. La storia la costruiscono le generazioni che si succedono nell’ambito di un popolo in cammino. Verso uno sviluppo che includa tutte le persone in tutte le loro dimensioni. Che privilegi la lotta contro la disuguglianza e la povertà. Che si fondi sull’idea della persona come essere sociale che passa da abitante a cittadino da cittadino ad appartenente ad un popolo. Dove essere cittadini e parte di un popolo significa essere convocati per una scelta, chiamati ad una lotta. Lotta per partecipare. Per smettere di essere mucchio, per essere integralmente persone, per essere società.
E chi convoca? Il primo passo è semplice. Non siamo noi che convochiamo. E‘ la realtà.
E non è nemmeno l’idea. E nemmeno la parola (con la minuscola). Perché la realtà è. L’idea si elabora, si induce. Non c’è autonomia tra idea (parola) e realtà. Non c’è subalternità della realtà all’idea. I nominalismi non convocano mai. Tutt’al più classificano. Ciò che convoca è la realtà illuminata dal ragionamento, dall’idea e dalla loro percezione intuitiva.
L’unità è superiore al conflitto, ma il conflitto esiste e non si può ignorare.
Non serve assumere la lotta di classe come principio di comprensione della società e della storia (se ci fermiamo alla conflittualità della congiuntura perdiamo il senso dell’unità). Ma assegnare al conflitto un posto rilevante nel processo di sviluppo. Farsi carico del conflitto, viverlo. I conflitti non possono essere ignorati, ma non si deve nemmeno restarne intrappolati o pensare si trasformino, da soli, in progresso. Si tratta di immergersi nel conflitto, compatire il conflitto, risolverlo e trasformarlo nell’anello di una catena, in uno sviluppo. E’ la nonviolenza.
Il tutto è superiore alla parte. Il modello è il poliedro. Il poliedro è l’unione di tutte le parzialità, che nell’unità mantiene l’originalità delle singole parzialità. Il tutto del poliedro non è il tutto sferico. Lo sferico non è superiore alla parte, la annulla. Si assiste alla riduzione del bene comune al bene particolare, si cerca una bontà che non essendo affiancata dalla verità e dalla bellezza, finisce per diventare bene privato, riservato solo a sé o al proprio gruppo. Una sfida per il cittadino, quindi, è salvaguardare questa unione di bontà, verità e bellezza, senza lacerazioni, in vista di un’esperienza di popolo, di un noi come popolo.
Di fronte a questo, la diagnosi della non efficacia nostra e della politica non può che essere legata alla lontananza tra governanti e popolo, tra noi e popolo. La politica spesso non si è messa al servizio del bene comune. Non ha saputo, non ha voluto o non ha potuto mettere limiti, contrappesi, equilibri al capitale per sradicare le diseguaglianza e la povertà. Noi, corpi intermedi, siamo rimasti nel mezzo. Ma abbiamo guardato troppo in faccia alla politica girando le spalle al popolo. Per rappresentare i problemi del popolo alla politica, magari. Per intermediare. Ma dove è rivolto lo sguardo lì è rivolto il cuore (e la testa e tutto il resto). Ed il popolo, è restato dietro alle spalle.
Il primo passo per tornare a partecipare al farsi popolo del popolo (che esiste comunque, a prescindere da noi) sta proprio lì: semplicemente, girarsi.
6.
Una infrastruttura civile immersa nelle comunità 
Le nostre imprese sono luogo di conflitto. Oggi spesso questo significa conflitto per definire chi gestisce l’impresa, conflitto tra associazione ed impresa, conflitto tra imprese. Ma anche, e sono snodi più interessanti, luogo in cui passa il conflitto tra mission dichiarata e praticata, tra realtà ed idea. E luogo del conflitto classico tra capitale e lavoro (tra proprietà e lavoratori). In che maniera ci immergiamo e trasformiamo questo conflitto in progresso?
La cooperazione prima, il terzo settore poi… nascono come modello alternativo (sia dal punto di vista politico che dal punto di vista organizzativo) all’economia di mercato, alle sue finalità e alle sue strutture. Oggi, fuori e dentro le Acli, cosa resta di tutto questo? Esiste ancora la tensione verso la costruzione di una novità in questo senso? Non può essere questa una pista concreta di resistenza all’abdicare della politica alla tecnica e all’economia? Non può essere un campo avvincente di sperimentazione, innovazione e trasformazione?
Per usare l’immagine precedente, la vision che può muovere le nostre imprese e farlo in modo inedito e significativo, non è girare la faccia alla politica (da cui oggi dipendono eccessivamente) per elemosinare le briciole dell’economia. Tra l’altro non faremmo proprio nulla di nuovo. Faremmo, in ritardo, ciò che hanno già fatto tutti gli altri. Lo specifico che possiamo mettere in campo è il girarci verso il popolo. Restituire al popolo le chiavi della cucina, e non farlo a fine servizio, ma durante.
Fuori di metafore, dobbiamo ripensare i nostri servizi come espressione di cittadinanza attiva. Superare la logica della struttura delegata dalla pubblica amministrazione ma anche la logica di un rapporto tra offerta e domanda che concepisce i fruitori del servizio solo come clienti.
Concepire i nostri servizi né come apparati burocratici né come mere imprese profit, ma come imprese sociali. Nel senso pieno del termine. E come tali trarre la loro ragion d’essere dal porsi davvero a servizio delle persone e delle comunità locali. A servizio del bene comune.
La direzione è chiara: superare definitivamente la logica dello sportello tecnico realizzando una infrastruttura civile immersa nelle comunità di riferimento. Una realtà competente e aperta che sappia riconoscere, organizzare, promuovere i bisogni presenti nelle comunità. E che sappia tradurli in diritti esigibili, in opportunità realistiche di uscita dal disagio e dalla fragilità.
Ci è data l’enorme opportunità di un crocevia già esistente di diritti e bisogni, luoghi dove vivono e transitano 2 milioni di persone. Possiamo coglierla, non solo per supportare il processo individuale di quelle persone verso la risposta ai bisogni individuali. Ma anche per contribuire al processo che porta quelle persone singole a diventare cittadini e quei cittadini a diventare popolo.
Ci è chiesto, insomma, di dare un impulso nuovo alla nostra capacità di organizzare in modo coordinato e polifunzionale i servizi. Di realizzare un rapporto con i fruitori che superi l’attuale separazione tra domanda e offerta e punti su forme solidali e creative di autorganizzazione e di cittadinanza attiva. E i fruitori, i soci, i volontari, i lavoratori sono tutti persone e tutti cittadini. E tutti ovviamente chiamati ad essere parte essenziale del processo. E tutti le figure che ibridano questi ruoli sono potenziale da valorizzare. E tutte le forme che innestano partecipazione di cittadini e lavoratori nell’impresa sono da esplorare.
Poi viene tutto il resto: il modello organizzativo, le scelte dei prodotti, le competenze da formare, i servizi da integrare, l’innovazione da perseguire…C’è bisogno di tutto ed è aspetto più che essenziale se non vogliamo restare a livello di slogan ed enunciazioni. Ma sono convinta che senza un’idea di fondo, forte e chiara, senza una tensione alta e una passione comune forte, non potremmo nemmeno riuscire, banalmente, a raggiungere la sostenibilità.
7.
Quindi…
Non ci si mette in mare per qualcosa di leggermente migliore dell’oggi.
Ci si mette in mare, affrontando il vento forte, per un sogno di senso. Per noi e per gli altri.
Acli tutte, che scelgono di partecipare e contribuire al divenire di un popolo e alla sua lotta per lo sviluppo, contro povertà e disuguaglianze. Per me è un sogno che ha senso.
Il lavoro da fare è quello della fatica enorme del primo cambiamento, la rivoluzione copernicana: togliere dal nostro centro noi stessi.
Sembra che non c’entri niente, lo so. Eppure è così:
Il centro è il Vangelo.
Il soggetto è il popolo.
Lavoro, Vangelo, Popolo. In fondo pure questo è un modo di declinare le 3 fedeltà.
Solo il Vangelo fa nuove le Acli.
E questa, non è una novità.
(post pubblicato su www.piugiusto.org) 

Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...