12. Il contesto è ciò di cui siamo tessuti - Ennio Ripamonti

Utilizzata frase di Aldo Ellena che per me è stato l’innesco con questa storia. 
Ci siamo visti per preparare il contributo. Provo a stare in scia con quello che diceva Barbara con quello che mi pare di aver appreso negli ultimi 2 anni da esperienza concreta. Una esperienza che ha scombinato le mie rappresentazioni. Progetto centrato su adolescenza e giovani, piccolo comune di montagna, 6.000 abitanti. 

Nel rapporto tra ricerca/azione nell’ambito delle politiche adolescenziali 3 fasi: 
  • molte ricerche, separate dalle azioni (anni 80). Grandi survey nazionali e tante esperienze locali. Veniva consegnata la ricerca ad un altro soggetto. Questa è la ricerca, adesso voi fateci un progetto. 
  • ricerche/azione. ricerche/intervento. Commissionato un programma e si chiedeva di costruir un progetto giovani facendo una fase di ricerca/azione. Ricomponendo. 
  • oggi si fanno tante azioni senza ricerca. Forse in un impeto di razionalismo. Non c’è tempo. Tanto si sa cosa dicono. Fate l’azione. 
Luogo in cui c’è stato uno sciame suicidio. In 2-3 anni molti adolescenti (vuol dire 2-3) hanno messo in atto un suicidio e altri hanno tentato. Questo evento drammatico ha sollecitato alla necessità di un intervento. Amministrazione, parrocchia, scuola… c’è un’urgenza. Perchè in un paese di montagna, con apparente benessere, è luogo di questo? 

La pressione dietro la domanda è: fare l’esperto. Quanto costa? Dicci cosa fare. Io intuitivamente capivo che non avevo la più pallida idea di cosa bisognava fare. E non avevo idea di quale era il problema. Sono i suicidi il problema o quello è la punta dell’iceberg? Apprendimento: la richiesta è subito di agire. Come se ci fosse un protocollo chiaro. La difficoltà è reggere la pressione del non fare. E’ duro perchè il rischio è apparire incompetente. Rischio che il committente dica: non sai fare, prendo un altro. Il committente può preferire il colluso, colui che asseconda la domanda. 

Pensato che serviva prendersi il tempo per capire. In un luogo in cui la parola ricerca e riflessione faceva a pugni con la cultura di tutti. “Ghe da laurà”. Capire non è percepito che lavoro è. C’è l’ansia della comunità e delle istituzioni per dimostrare che di fronte al problema si sta facendo qualcosa. La rappresentazione è che dopo il progetto questo non succede più. Allora ho capito che era necessario adottare uno sguardo panoramico di questo luogo. Cercare di capire da dove veniva il dolore. Era l’episodio del 2014 o c’è una storia di questo tipo? Appena messo su google ho trovato una marea di ricerche sulla depressione nell’arco alpino. La fretta, il bisogno diceva: non si può stare a leggere ricerche degli anni 60…

Era necessario far emergere, oltre il dato già emerso dei tentati suicidi, una rappresentazione. Non solo del mondo adulto e degli esperti. Capire cosa dicevano i ragazzi dei loro coetanei. Metodi: tenere per mano teoria e pratica. cammino, modo. Provato a fare piccola ricerca azione. Sapevamo che c’erano limiti. La domanda era cercare di capire lì, in quel contesto, con quella cultura, con quell’ansia, che spazio possibile c’era…

Ricerca-azione di tipo partecipativo. Formato velocemente una quindicina di persone del posto di ambienti diversi che hanno generato interviste, focus group. Sono emerse delle storie di disagio. Dal punto centrale che era fate qualcosa perchè i ragazzi si suicidano è emerso un mondo. Un luogo che in 30-40 anni è diventato uno dei paesi più poveri della lombardia ad uno dei più ricco d’Italia. Il denaro veniva citato moltissimo dalle persone. il rapporto con il denaro era il grande mantra della qualità della vita. Ha il lavoro, ha tutto, perchè il figlio di un imprenditore si impicca in una baita alpina? Comunità uscita dalla povertà. I figli fanno scelte incomprensibili. Le rappresentazioni emerse tendevano ad essere negate. Cosa c’entra? E’ stato molto faticoso. E penso abbia consentito di far emergere un po’ di storie del luogo. 

Sforzarsi di cambiare il punto di vista con cui guardiamo il mondo. L’inerzia mentale mi aveva colpito. Avevo fatto circa 50 ricerche/azioni ma le forme i luoghi di questo luogo erano diverse. 

C’erano 3 caratteristiche: 
  • alto tasso di natalità. adolescenti e ragazzi sono tantissimi, famiglie numerose… (quindi minorità non funziona)
  • non esiste la disoccupazione. (quindi chiavi di lettura neet non funziona)
  • uno dei pochi posti in cui ci sono ancora enormi riti di passaggi all’età adulta. non ci sono scuole superiori. quasi l’80% va via per 5 anni in convitto. In trentino, in austria, in svizzera… moltissimi ragazzi e ragazze che hanno iniziazione precoce e felice all’adultità. Maggioranza sono mediamente più sveglie sfamati di molti (quindi non famiglia affettiva che non emancipa). 
Una quota minoritaria sperimenta di fronte alla fatica di vivere che connota tutti, una solitudine e un isolamento che è più elevato di altri. Se sei per 5 anni a Bolzano e stai bene e fai basket, parli tre lingue. Ma se in convitto non stai bene, se hai un’esposizione al rischio c’è una esposizione alle sostanze che è più elevato della media. Alcool, sostanze. Tutto questo ci obbligava a guardare il contesto.

Il contesto non è ciò che c’è attorno. il contesto è ciò di cui siamo tessuti. Osservazione partecipanti è un modo di andare quasi a prendere qualcosa dagli antropologi. 

Qualche anno prima era stata realizzata, in tutta la Valtellina, una grande ricerca “la mala ombra” sui suicidi. E’ stata fatta e pubblicata e quando è stata presentata a Sondrio ha suscitato diversi articoli di giornale. Uno su La stampa ha intitolato “La valle triste”. Questo luogo in cui ci sono condizioni potenziali di benessere, ma la felicità e qualità della vita non è come l'indicatore socio-economico ma come la percezione della propria esistenza. Ogni anno il Sole24 ore pubblica la lista delle città con la migliore qualità di vita. La provincia di Sondrio era primo in qualità della vita e primo in comportamento suicidario. 

Altissimo senso di comunità. Con rapporto ambivalente con chi viene da fuori. Invito a esperti a fare conferenze con i genitori. Quelli che sono in televisione, quelli famosi. Enorme fatica cercare di capire “noi, qui, però… cosa diciamo?”. 

Interpretare cosa dicevano i ragazzi era molto faticoso. Sempre con stop e go. Nasce un progetto che viene chiamato "Comunità educante". Parrocchia, comune, attori locali… con risorse, soldi, strutture… luogo generoso. E si prova a ridefinire il problema. Sentito uno psichiatra toscano che dice: i suicidi sono un’esperienza umana. Non è di questa terra avere una comunità senza suicidi. Sono casi limitati. Dietro un fatto eclatante, c’è un mondo di sofferenze e male di vivere che solo in pochissimi casi arriva al gesto.

Nella rielaborazione sono state molto utili le figure intermedie. Educatori, insegnanti, animatori. Soprattutto gli allenatori sportivi. Ci hanno detto: "Badate che, sulle nevi, i ragazzi che arrivano dal centro europa si portano poi le sostanze. C’è una new wave del modo di vivere la montagna dei cercatori di emozioni, che usano l’ambiente alpino come forma di esperienza, che è altamente dopata. Non leggete lo sport solo come fattore protettivo. C’è la ricerca dell’avventura e dell’emozione ma c’è anche altro". 

Nel pieno di questa vicenda c’è un nuovo episodio. Una nuova ragazza si toglie la vita. In modo ancora più spettacolare. Questo mette in crisi. Perchè “allora non serviamo a nulla”. Emerge in modo forte una caratteristica del contesto. il mondo adulto è caratterizzato da due fattori: 
  • la scuola ha per l’80% (1850 metri) nessuno vuole andare ad insegnare. La quasi totalità degli insegnanti cambia ogni anno. Quasi totalità viene dal sud. Condivide alloggi e sono portatori di una loro comunità adulta precaria e sradicata. E questi dovrebbero essere il punto di riferimento. 
  • la grande maggioranza dei genitori ha stile di vita per cui il week end, giorno in cui i ragazzi sono a casa da scuola, è il momento di massima attività lavorativa. Ski-lift, negozio, ristorante…
Quindi ciò che emerge è la fatica di trovare adulti un po’ lì, un po’ presenti, un po’ stabili. 

Si cerca quindi di tenere assieme una cultura super lavorista, in cui il lavoro è il valore principale, è indiscutibile. Molti di questi adulti dicono: se uno è di qui, se va a sciare in settimana gli altri ti vedono e dicono “Ma, questo non lavora?” quindi vanno a sciare di nascosto. Perchè c’è una quasi dittatura culturale. 

C'è un enorme dispositivo culturale del turismo. Turismo come totem che dà ricchezza alla comunità. Consente di avere soldi. Ma come elemento in cui questa comunità fissa, fa girare attorno a sè una comunità mobile. Ed il frame del divertimento e svago è una situazione di perenne Gardaland. In cui però le persone vivono. In questo posto dire che hai problemi e che non sei contento non va tanto bene. Trovare le persone, il contesto, il modo per dire che non si sta bene non è facile. 

Questo ci porta a fare un lavoro con il Dip. di salute mentale. In cui si dice: qui le persone che stanno male non si curano. Oppure trovano la via della cura privata, nascosta. Questo poi ha prodotto alcuni eventi positivi “ADO, genitori adolescenti, che non ascolta esperti ma parla di sé”.

Poi arriva una trasmissione televisiva in cui un personaggio del mondo televisivo "Lele Mora" ottiene la cittadinanza onoraria di questo comune. Il fatto scatena una bomba atomica nella faticosa costruzione della relazione. Il turismo, la pubblicità, i media. Il codice culturale è molto potente. E’ un luogo che si nutre anche di questo e questa parte ha bisogno di essere riconosciuta. L'effetto dei media l'avevo già sperimentato. La cose più frequenti è nelle periferie urbane. Tu lavori sul migliorare la percezione del territorio. Poi arriva l’articolo che dice “il bronx”. E hai la sensazione che ti crolli tutto. Qui per la prima volta ho sperimentato il contrario. Devi prender contatto con il problema e prendere contatto con la parzialità. Provare a pensare realmente "quel è il problema" mette in crisi le finzioni o le dimensioni salvifiche. Perchè quelle dimensioni ti mettono in contatto con il problema solo fino a che ti danno il ruolo di salvatore. Ma sono anche le dimensioni che ti danno il motivo di staccartene. Non sei stato salvatore, non hai funzionato, devi distaccarti da ciò che ti restituisce questo ruolo. Ed in più lo fa pubblicamente. Devi espellere il problema, distaccarti dal problema o attribuire ad altri la responsabilità.



Il tema della costruzione del problema non è iniziale. E’ in progress. Ti mette di fronte alla parzialità e alla costanza della relazione. Solo la costanza della relazione ti permette di cogliere le evoluzioni.  

C’è chi affronta i prblemi con la logica ad albero: causalità. Da A a B, da B a C. Che però ci sembra razionalistica. E c’è logica di rapporto con problemi di riuscire a vedere i mutui influenzamenti che si ridefiniscano nel corso del tempo. Riuscire ad avere un pensiero dove le questioni sono collegate ai fattori influenzanti e dove i fattori influenzanti sono anche risorse. In Lombardia abbiamo anche fatto uno studio su come accompagnare i gruppi dei grandi progetti di comunità che erano quelli finanziati dalla Cariplo. 

Mettere a fuoco i problemi, più che le soluzioni, porta ad una logica di rapporto con le situazioni fragili che è dell’individuare degli appigli. Le situazioni non le risolvi, ma riesci a vedere appigli a cui le situazioni stesse possano aggrapparsi. L’appiglio, che non è la base murata, richiede la fiducia nell’altro, che tenga l’appiglio. Ti devi anche un po’ fidare. Però l’appiglio lo vedi sempre solo nella visione ravvicinata. Da lontano le cose appaiono solo impossibili. Oppure risolvibili solo con il compressore, che distrugge la montagna e crea i gradini. Da vicino vedi gli appigli. E vedi anche l’abilità che serve per muoversi in quelli. Ma questo chiede un dimensione relazionale. 

Conoscenza dei dati. E’ vero che la realtà se la ascolti, se hai un occhio attento, se ti sforzi di avere un occhio appassionato a cogliere, ti dice molte cose. Sono stati importanti strumenti che aiutassero ad avvicinarsi alla realtà. Osservazione partecipante. Guardare la realtà e trascrivere ciò che vedo, ciò che penso e ciò che mi fa pensare. Si è creata una capacità di vedere i fenomeni. Ricchezza di comprensione enorme. Frammenti, ma che permettono l’approccio alla conosenza. Che è approccio ricorsivo. Cambiano i copioni con cui avvengono le cose. Le circolarità si colgono solo con una capacità osservativa della realtà più forte. E’ importante non cogliere solo le superfici delle cose. Non si tratta solo di quantificare e codifirare le azioni singole. Si tratta di comprendere il contesto. 

Wondering. E' il modo con cui si chiama quango la persona con alzheimer cammina. Ma questa è una codificazione. Come dire “trakking”. Ma dove vai? cosa fai? Quando una persona nuova entra in reparto è stato chiesto di non codificare i comportamenti, di rilevarli.  Non scrivere sul diario "Wondering". Scrivere "Sono le 9, si mette le scarpe, è tranquilla, va in cucina, non parla…".  Cioè non ridurre subito a sintesi. I codici chiudono. Quando voi dite: ho 27 casi di TM e 18 in prevenzione. Cosa dite del fenomeno? Gran poco. E' un codice. Serve per capirsi all'interno di un gruppo chiuso. O per riconoscersi parte di quel gruppo. Uscire dalla codifica e rilevare il comportamento è utile per poi rileggere e interpretare. Ed aprire a nuove possibilità di lettura ed interpretazione. Non è questione di essere produttori di osservazioni che poi altri valutano. Si tratta di essere attori di ricerca. La comprensione dei soggetti che effettuano l'osservazione è importante. Per la persona e la sua dimensione formativa ma anche per la ricerca stessa. 

Solo l’amore conosce. Solo la passione e il desiderio ti consente di cogliere e conoscere. L’apprendimento è possibile solo se le persone si appassionano alla conoscenza. Dal punto di vista metodologico è utile vedere quei passaggi che aiutano il processo. Meno il rapporto è prescrittivo, più è sostenuto in modo costruttivo, e più funziona. Devi mandare le schede al giudice. Quello che i servizi fanno con le informazioni, di solito, è ottemperare ad un debito informativo rispetto ad una istanza superiore. Non è produrre conoscenza.  Se l'atteggiamento è "sto ripianando il debito" metto i dati che ho, così come sono. Tanto a me cosa resta? Resta qualcosa che non mi dice più nulla. E non mi interessa che mi resti, tanto io sto solo pagando un debito. Debito che in parte trovo anche ingiusto ("cosa mi chiedono a fare") o punitivo, o sbagliato... In ogni caso non sto conoscendo. Mentre i dati sono conoscenza. E i dati servono, in primo luogo, a chi fa l'attività. Per capire come farla. 
Ridare significato al lavoro di sorveglianza. La sorveglianza è il lavoro che l’operatore fa mentre non sta intervenendo. Nei due istituti era colto come un'azione vuota. In un istituto (quello cattolico) era chiamata “custodia” nell’altro (quello di matrice laica) “sorveglianza”. In entrambi i casi era un'azione vuota. Cui non era connesso nessun significato. Uno spreco organizzativo, per l'operatore. Un esempio di non buona professionalità, per l'istituzione. Nell’ottica che abbiamo cercato di condividere l’attività di sorveglianza è diventata un'attività piena, non vuota. E’ l'osservazione del soggetto anche fuori dalla interazione diretta con l’operatore. Cosa fa il soggetto? Veglia. Sentinella. La  sentinella non è chi semplicemente sta. Nemmeno chi aspetta il cambio turno. La sentinella scruta.  

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