9. Ma com'è il sociale? E come sta oggi? - Sergio Manghi





Sergio Manghi - Agire nel sociale - Ma che cos’è il sociale? E come sta oggi? 

E’ indubbio che in questo contesto il rischio di dare per scontato che tutti siamo sempre d’accordo su tutto è un rischio molto forte. Ed è un rischio molto alto, perchè addormenta il pensiero. 

Sociale, parola importantissima, ma che richiede teoria.
Il sociale non l’ha mai visto nessuno.
Il sociale è una parola. Come sedia. Come libertà. 
E non è che a furia di ripeterlo e di far finta che sappiamo di cosa parliamo il sociale si manifesta.

A seconda di cosa immaginiamo essere il sociale noi vediamo cose diverse. 
Ognuno di noi ha mappe diverse del sociale. 

Sociale, nel senso più intuitivo e generale, è scritto in questo quadro.
Con l’enfasi su quel punto che nessuno evidenzia mai, quelle mani.
Si sono perdute, si stanno cercando, chi lo sa?
C’è la terra, c’è il cielo, c’è il sacro. 
Noi senza sacro non saremmo sopravvissuti una settimana.
Il sacro ci ha messo al mondo. Con anche complicazioni sgradevoli. 
Riconoscere alcune complicazioni sgradevoli non vuol dire non riconoscere il sacro.

Non sono battezzato. Non sto facendo propaganda religiosa.
Mi muovo su un altro piano. 
Il sacro è fondamentale. Nel bene e nel male.
Il sacro è come la fiamma del focolare. Troppo vicino, si brucia. Troppo lontano si gela.

C’è la trasformazione terra/cielo con danze umane.
C’è il rischio continuo di non quagliare niente.

Sociale non è sinonimo di umano.
Il sociale umano, che si nutre di cultura (e che per anni si è nutrito del sacro) è un pezzo del sociale.

Sacro è ciò che tiene assieme.
E’ inimmaginabile il sociale senza una dimensione anche religiosa, in senso molto ampio.
Il sociale, senza il sacro, è una somma di individui.
Gino + Giovanni + Paolo + ….. 
Come chiamiamo il qualcosa di diverso che differenzia Gino + Giovanni + Paolo + … dall’insieme?
Qualcosa che ci trascende e ci lega. 
Ci lega, si, ma senza vincoli non ci sono possibilità.

Quali competenze socio-relazionali vengono attivate nel sociale?

il contagio
Il contagio nel sociale è fondamentale.
Si dice che è imitazione. Ma tutto è imitazione, perennemente.  
Per gli occidentali questo è nascosto, perchè nel nostro iper narcisismo crediamo di dover essere originali. In realtà ogni imitazione è originale. Perchè noi imitiamo imperfettamente. E quindi generativmente.

il desiderio 
Il desiderio è sempre desiderio dell’altro. Non è mai il mio desiderio di me.
Si pone il problema di come sta il desiderio oggi.
Nella società il desiderio è largamente scaduto in forme non necessariamente pro-sociali.
In sanità il desiderio prende la forma di domanda di vita eterna e questo impatta infinitamente.
La fatica delle istituzioni a rispondere è enorme.
I desideri contano. 
C’è un desiderio pro-sociale e c’è un desiderio frantumante.
L’associazione in corso, molto forte, tra tecnologie ultra personalizzate, neocapitalismo e schiacciamento sul presente porta a domandarsi se quella cui assistiamo oggi non sia una parodia del desiderio, nel nome del desiderio. 

Oggi l’atteggiamento è di depressione. 
E la depressione è la risacca del desiderio. 
Che porta al risentimento. E alla violenza.

Resta molto importante che ad attivare sia qualcuno di altro. 
Non è che l’assenza fisica significhi non presenza.
“assenza, più acuta presenza”. 
Non vale solo per le perdite di persone care.
L’altro da noi, ciò che dà senso a quello che facciamo, è sempre inarrivabile.

Gli strumenti ci vogliono. 
la scheda, il questionario, l’intervista…
il metodo è prima.
il metodo è teoria e ininterrotta verifica attraverso l’azione.
il metodo è un camminare con in mente alcune idee.

Agire nel sociale con una prospettiva comporta una certa idea.
Tra teoria e metodo c’è una fusione molto forte.
Relazione, mappa, gerarchia. 
Gerarchia è parola imparentata con vecchio, sacro.
I vecchi erano gerarchia. I geriatri studiano questo.
ieros è sacro. ieratico è sacerdotale, solenne.

Il punto più difficile è sulla parola relazione.
E’ una parola che pronunciamo ininterrottamente.
Dando per scontato che sappiamo di cosa stiamo parlando.
Ma ciascuno di noi pensa cose diverse. Come è inevitabile.
Relazione è anche cercare di avere più chiaro quali son le proprie idee.
Se no c’è solo la retorica dell’ascolto che in realtà è un proiettare sugli altri.
Lasci parlare con sguardo attento, solo come strategia persuasiva.
Mantenendo costantemente l’attenzione ai propri filtri creativi.

Esercizio: il gioco della bicicletta con le mani e la penna.
Ci si pone in due, con una penna tra l’indice di una mano della persona e l’indice di una mano dell’altra persona. E si fa ruotare come bicicletta. Con due mani in contemporanea. 
Poi chiede di farlo ad occhi chiusi. 

Fine del gioco, chiede feedback sull’esperienza: 
  • ad occhi chiusi veniva meglio
  • ritmo
  • bisogno di ascolto 
  • si migliora nel tempo (?)
  • all’inizio uno dei due deve essere più deciso dell’altro (?) 
  • serve fare attenzione al gesto 

Le vostre considerazioni sono tutte di tipo duale e psicologico, la sociologia dov’era?
Questo ci indica che la potenza delle mappe psico è enorme, sovrabbondante e schiacciante.
Quando diciamo la parola relazione quasi sempre diciamo un 2. 

In realtà ciascuno, nel coordinarsi con l’altro di fronte, aveva ben presente che tutti gli altri stavano facendo la stessa cosa. Sarebbe stato molto diverso se avessi detto: questa metà sta facendo questo e quest’altra sta facendo altro. Sarebbe stato molto diverso se avessi chiesto solo a due di fare davanti a tutti. Sarebbe stato molto diverso se avessi dato il mandato solo a due persone, senza che gli altri sapessero. 

Nessuna relazione è a due. C’è sempre un terzo. Anche ad occhi chiusi, ci si fida che gli altri stanno facendo le stesse cose.

E c’è un gerarchia. Un relatore in questo contesto è un’istituzione. 
La relazione non è a due e non è nel vuoto. 
Al minimo gesto interattivo noi ricostruivamo insieme l’io, il tu, gli altri, l’istituzione, il mondo. 

La relazione viene per prima, precede. 
Noi siamo sempre dentro relazioni di relazioni di relazione.
Immersi in modi di cui neanche abbiamo sospetto di quanto siano per noi vincolanti.

Il sociale ha una dimensione astratta.
Il sociale è un tessuto.
Il sociale è la tessitura ininterrotta delle relazioni.
persone, gerarchie, istituzioni…

Chi ha cominciato prima, è come l’uovo e la gallina.
Il punto semmai è chi è consapevole.
Siamo in una danza e non possiamo non continuare a danzare.
Noi occidentali abbiamo pensato: al centro è c’è l’individuo o la società.
Si può mettere al centro dell’attenzione la dinamica relazionale.

Anche per fare quel semplice esercizio c’è bisogno di costruire le precondizioni.
Costruire le condizioni macro per stare qui.
Noi stessi rigeneriamo queste condizioni. Da migliaia di anni. 
Noi siamo corresponsabili di qualsiasi cosa avvenga nel mondo. Anche le più orrende.
Il mondo lo facciamo noi stessi, ininterrottamente.

Ogni singolo gesto contiene il micro e il macro. Altrimenti il sociale sarebbe metafisico. 
Ci sono infiniti saperi taciti incarnati nelle pratiche. 
Saperi situati, incarnati, genialmente inconsapevoli. 
L’inconscio non è ciò che la coscienza non sa. 
L’inconscio ci vede molto bene. 
La coscienza semmai è cieca.

Un bipede incontra un millepiedi. E vede che non inciampa mai.
- Come fai?
- Sai che non ci ho mai pensato?
E ci pensa. E ricomincia a camminare.
E inciampa. 

I saperi sociali sono larghissimamente totalmente inconsci. 

Gli esseri umani si avvalgono di una dimensione simbolica, di mappe.
Dalle presupposizioni non si esce.
Anche lavorando sulle presupposizioni, non ce ne liberiamo.
Quel che conta è sapere che ci sono, sempre. 
E che noi non siamo mai completamente padroni.
Noi le teniamo su, come le matite, assieme agli altri. 

La relazione.
Un conto è l’interazione in presenza.
Un conto è la relazione. La relazione è anche non in presenza.
La nostra vita è continuamente dedicata ad altri ed altro.
Un figlio desiderato non arrivato ha una potenza di influenza nella vita molto maggiore di tante altre cose e persone presenti. 
Il desiderio è strutturalmente legato all’assenza. 

Mediazioni
C’è una mediazione interna e una mediazione esterna.
Mediazioni: cosa facciamo io e te, qui e ora? 
Dal momento stesso in cui arrivi al mondo, momento per momento, ci sono mediazioni da compiere.  

I filtri creativi ci sono sempre.
Noi pensiamo ce li abbiano solo i poeti, i profeti… e i matti.
invece tutti siamo profeti, artisti, matti.
in particolare nel nostro tempo. 

Mediazione esterna significa che mentre noi siamo lì, faccia a faccia, possiamo usare pattern interattivi che tutti conoscono e che sono sopra di noi e che in qualche modo ci proteggono.

Nel nostro tempo, unico in questo (e il lavoro nel sociale ne ricava una missione specifica molto importante, mai è stata così importante nel passato) c’è stato il crollo della mediazione esterna. Le mappe psicologistiche sono diffuse perchè sono crollate le mappe socio. 

Cosa custodiva il senso comune? le gerarchie.
Il sacro, le istituzioni. 
Questa dimensione va pensata in termini di decine di migliaia di anni. Il mio faccia a faccia con il vicino, da sempre, si è avvalso di modelli esterni. Questa dimensione, che per millenni è stata affidata alle istituzioni, oggi è fortissimamente affidata ad iniziative dei singoli. 

Nel contagio mimetico, chi viene imitato? Il primo che si muove. 
Il primo che scaglia la pietra. Ma anche il primo che dice: io guardo avanti. 
Ci vuole un coraggio enorme, oggi, nell’andare avanti. 
Questo fa una grande differenza, rispetto al passato. 

Mi devo spogliare del mio ruolo professionale per capire le persone”.
E’ interessante. Ma se ti spogli del ruolo ti licenzi anche? So no l’altro pensa che tu sei buonissimo con lui. Ma tu sei anche pagato. Questo è molto comodo. O molto fuorviante. 
In realtà ciò che sta dicendo è che il ruolo, per come è oggi, non è di aiuto. 
Chi agisce nel sociale è un protagonista responsabile.
Deve saper rispondere ad un vuoto che si è creato con il crollo di questa dimensione profonda che ci ha organizzato e pre-organizzato. 
Più crolla e più non sappiamo come fare, nel faccia a faccia.

I ragazzi mediano la relazione con la tecnica. Perchè oggi è difficile il faccia a faccia. 
Difficile perchè non ci sono più pattern condivisi immediatamente usabili. 
E non ci sono istituzioni efficaci. 

I preti di una volta erano sparsi nei paesi, trovavano lavoro, combinavano matrimoni, risolvevano problemi, mettevano in contatto… Oggi non c’è più. Ma chi lo fa quel mestiere oggi? 



Ti spogli del ruolo, per molti è una condizione drammatica, dopo chi sei?
Ma è anche una condizione potenzialmente generativa, a condizione di saperlo.
E a condizione che ci siano luoghi comuni dove provare a essere generativi. 
C’è grande solitudine di chi lavora nel sociale.
Ci vorrebbero luoghi come questo. Sul territorio.
Nessuno da solo è in grado.

C’è una delega in crescita della società al lavoro sociale.
Che rischia di diventare “vai avanti tu che a noi ci scappa da ridere”.
Le questioni sono enormi, i drammi sono profondi, le figure problematizzate sono tante. 
E tu non sai cosa fare.

La questione della gerarchia. 
Perchè è strettamente associata al sociale e alla crisi e alla possibilità di trasformazione? 
Perchè io mi dichiaro seguace di Rene Girard, il sacro non è il credere, non è il cognitivo. 
Il sacro era fatto (ed è fatto) di agire, di rituali. 
Molto spesso le discussioni sul credere e non credere vanno sui dogmi ma non è quello.  
C’è una dimensione essenziale del sacro ed è che consente a tutti, ripetendo gesti noti, che si evochi qualcosa più grande di noi. 

Il sacro non arriva da chissà dove. Regola le nostre interazioni. 
E in particolare arriva da una azione specifica che si chiama rito sacrificale. 
Molto emozionante. Trovarsi tutti insieme a sacrificare una vittima. Convinti che non si sta facendo dl male, convinti che si sta facendo il bene della comunità. 

Ha funzionato sempre così. Fino a che è arrivato Gesù. E ha detto: va bene, io sono in quella posizione, la vittima sacrificale, e adesso voi andrete d’accordo. Ma d’ora in avanti le cose cambieranno. E risponde con il perdono, per non far partire la logica del capro espiatorio. 

Cosa fa Gesù in quel momento? Gesù dice: perdonali. 
Gesù fa l’antropologo. Dice: Vedi Signore? Stanno facendo quello che gli esseri umani hanno sempre fatto, fin dalla fondazione del mondo. 
Il sociale si fonda fin dalla fondazione del mondo sul sangue della vittima. 
Il sacro è fondato sul sacrificio di una vittima innocente. Sempre innocente, anche se colpevole. 

Il sacro si produce nel sacrificio.
Poi c’è sacrificio che rinuncia al sangue, ma ha la stessa struttura.
E’ il passaggio da barbarie a civiltà. Ma resta uguale. 
Come mai da quella danza non si riesce ad uscire?
Evidentemente è una struttura ritmica relazionale che è tuttuno con il sociale umano. 

C’è tutta una ritualità, senza quella non compare l’idea.
Affinchè l’idea diventi collettiva deve passare da comportamenti ritualizzati.
Una cena non è mangiare. Una cena è un comportamento ritualizzato. 

Da quando abbiamo iniziato a cercare di rinunciare al capro espiatorio?
Da quando abbiamo provato a passare da civiltà a barbarie? 
La storia della democrazia inizia con Atene che è dei maschi, adulti, liberi e ateniesi.
Tutti gli altri e le altre erano escluse.

La storia della democrazia è storia di progressiva inclusione.
Ma non è mai naturale. Non è mai spontaneo. Ogni volta è una lotta. 
Non è che chi è dentro, per bontà, scegli di condividere con chi è fuori.

Le lotte sono sempre a spezzare il sociale precedente, dinamizzandolo.
Ogni inclusione porta conflitti. 
I processi di inclusione portano nuovi conflitti. Il conflitto è la condizione della generatività.
Perchè quello è il momento in cui ti accorgi di loro e ti chiedi: ok, che vogliamo fare? Vogliamo massacrarci o fraternizzare? E la risposta non è scontata. 

Ma come si fa a fraternizzare? Si trova un’altra cosa. 
Qualcosa che consenta di vedersi tutti quanti in un modo diverso.
E’  il prerequisito essenziale. 

La frase di Ellena. Ellenatori e profeti. Politici. 
Chi vede lontano, vede ciò che altri non vedono.
Vedere ciò che gli altri non vedono è proprio del profeta. 
E’ proprio del politico. E’ proprio del sociale.
Il lavoro sociale è lavoro profetico e politico.
Se non riesce ad essere questo chi crederà al dopo? 

E’ sempre stato così. Ma non è mai stato così drammaticamente vero come oggi.
In altre fasi si dava per scontato che c’era una realtà istituzionale definita,
fino troppo definita, bisognava lottare per cambiarla.
Oggi invece chi agisce nel sociale è in prima linea per rigenerare il mirco, il meso e il macro, tutto insieme. E solo da lì c’è la possibilità di rigenerare la polis. 

La sfida del lavoro sociale è la metafora del 18° cammello.
In un paese arabo, muore il padre, lascia una eredità. Al primo figlio 1/2, al secondo 1/3, all’ultimo 1/9. Se non che, lui ha 17 cammelli come patrimonio. E  17 non è divisibile né per 2, né per 3, né per 9. Per evitare il conflitto esterno (le idee nuove vengono solo nella grande crisi, e non è detto che vengano) si rivolgono ad esterno: semplice. Vi presto un cammello. E fa 18. Il ragazzo più anziano prende 9 cammelli (la metà). il secondo prende 6 cammelli (1/3) e il ragazzo più giovane ne prende 2 (1/9). Sommando il tutto fa 17. Vi avanza un cammello. Me lo ridate e siamo a posto. 


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