Premessa. Lo stile. Un saggio
autobiografico. Né solo teoria. Né solo biografia. Piccola storia e grande
storia che si intrecciano, lette l’una alla luce dell’altra. Modalità interessante.
1.
Le
classi.
I destini sociali, infatti, sono tracciati
molto presto. Tutto è giocato in anticipo. I verdetti sono emessi prima ancora
che se ne possa prendere coscienza. Al momento della nascita le sentenze ci
sono incise sulle spalle con il ferro rovente, e i posti che andremo a occupare
sono definiti e delimitati da chi ci ha preceduto: il passato della famiglia e
dell’ambiente nel quale si viene al mondo.
È possibile parlare di una guerra implacabile,
condotta dalla società, attraverso il funzionamento più banale dei suoi
meccanismi più ordinari, dalla borghesia, dalle classi dominanti, da un nemico
invisibile – o troppo visibile – contro le classi popolari in generale?
Basterebbe osservare le statistiche della popolazione carceraria in Francia o in
Europa per esserne convinti.
2.
La
provincia.
Durante i quattro anni passati in questo
dipartimento non sentii mai parlare di Lévi-Strauss, Dumézil, Braudel,
Benveniste, Lacan… la cui importanza era riconosciuta da moltissimo tempo. Né,
è inutile dirlo, di autori quali Althusser, Foucault, Derrida, Deleuze,
Barthes, che avevano già raggiunto una grande notorietà. Ma quello avveniva a Parigi, e noi eravamo a
Reims. Sebbene ci trovassimo solo a centocinquanta chilometri dalla capitale,
ci separava un abisso dalla vita intellettuale che in quel momento si stava
reinventando con un’intensità senza eguali dal periodo del dopoguerra.
3.
La
sinistra.
“Quando Gilles Deleuze, nel suo Abecedario,
propone l’idea che “essere di sinistra” è “prima di tutto percepire il mondo”,
“percepire all’orizzonte” (considerare che i problemi urgenti sono quelli del
terzo mondo, più vicini a noi di quelli del nostro quartiere), mentre “non
essere di sinistra” sarebbe, al contrario, focalizzarsi sulla strada e il paese
in cui si vive, la definizione che propone si situa all’estremo opposto di
quella incarnata dai miei genitori: negli ambienti popolari, nella “classe
operaia”, la politica di sinistra consisteva prima di tutto in un rifiuto molto
pragmatico di ciò che si subiva nella propria vita quotidiana.
Nella mia famiglia si divideva il mondo in
due campi: quelli che sono “per gli operai” e quelli che sono “contro gli
operai” o, secondo una variazione sullo stesso tema, quelli che “difendono gli
operai” e quelli “che non fanno niente per gli operai”. Quante volte ho sentito
queste frasi nelle quali era riassunta la percezione della politica e delle
decisioni che essa prendeva! Da un lato c’eravamo “noi” e quelli che erano “con
noi”, dall’altra c’erano “loro”.
L’espressione “la sinistra” era dotata di un
significato forte. Si trattava di difendere i propri interessi e di far sentire
la propria voce, e questo avveniva, oltre che durante gli scioperi e le
manifestazioni, attraverso la delega e il mettersi nelle mani dei
“rappresentanti della classe operaia” e dei responsabili politici dei quali
poi, di conseguenza, si accettavano tutte le decisioni e si ripetevano tutti i
discorsi.
“Chi assume, oggi, il ruolo che giocava “il
Partito”? A chi possono rivolgersi gli sfruttati e i disagiati per sentirsi
rappresentati e sostenuti? A chi possono riferirsi, appoggiarsi, per fornirsi
di un’esistenza politica e di un’identità culturale? Per sentirsi fieri di se
stessi perché legittimi e allo stesso tempo legittimi perché legittimati da
un’istanza potente? O, molto semplicemente: chi tiene conto di ciò che sono e
vivono, di ciò che pensano e vogliono?
Quale pesantissima responsabilità ha la
sinistra in questo processo? Quali responsabilità hanno quelli che, dopo aver
relegato il loro impegno politico degli anni sessanta settanta nel passato ormai lontano delle
scappatelle giovanili e dopo aver avuto accesso alle funzioni di potere e alle
posizioni importanti, si sono messi d’impegno a imporre le idee della destra? E
lo hanno fatto cercando di rinviare nel dimenticatoio della storia una delle
preoccupazioni essenziali della sinistra, perfino uno dei suoi caratteri
fondatori dalla metà del diciannovesimo secolo, vale a dire l’attenzione
rivolta all’oppressione e agli antagonismi sociali, o semplicemente la volontà
di dare un posto ai dominati nello spazio politico.
Adottarono, così, un punto di vista sul
mondo da governanti, rifiutando con sdegno (con una grande violenza discorsiva,
che fu sentita come tale dalle persone su cui si esercitò) il punto di vista
dei governati. Tutt’al più ci si degnò, nelle versioni cristiane o
filantropiche di questi discorsi neoconservatori, di rimpiazzare gli oppressi e
i dominati di ieri – e le loro lotte – con gli “esclusi” di oggi – e la loro
presunta passività.
La
destra
Questo voto dei miei fratelli, tuttavia, per
un partito che m’ispira un profondo orrore, e in seguito per un candidato alle
presidenziali di una destra più classica che seppe attirare questo elettorato,
sembra essere rivelatore di una tale fatalità sociologica, sembra obbedire a
tal punto a leggi sociali (che dunque valgono anche per le mie scelte
politiche) da lasciarmi perplesso. Non sono più sicuro come una volta di come
giudicare tutto ciò.
È facile convincersi, in modo astratto, che
non si rivolgerà mai la parola o che non si stringerà mai la mano a qualcuno
che vota per il Fronte nazionale… Ma come reagire quando si scopre che si
tratta della propria famiglia? Che cosa dire, che cosa fare, che cosa
pensare?
Se io avessi percorso lo stesso cammino dei
miei fratelli, sarei come loro? Voglio dire: avrei votato per il Fronte
nazionale? Protesterei anch’io contro gli “stranieri” che invadono il nostro
paese e “si credono a casa loro”? Avrei condiviso con loro le stesse reazioni e
gli stessi discorsi di difesa, contro quella che per loro è un’aggressione
permanente nei loro riguardi da parte della società, dello stato, delle élites,
dei “potenti”, degli “altri”? Di quale “noi” farei parte?
A quale “noi” mi opporrei? Quale sarebbe la mia politica? Il mio modo di resistere all’ordine del mondo o, al contrario, di aderirvi?
A quale “noi” mi opporrei? Quale sarebbe la mia politica? Il mio modo di resistere all’ordine del mondo o, al contrario, di aderirvi?
Far scomparire dai discorsi politici le
“classi” e i rapporti di classe, cancellarli dalle categorie teoriche e
cognitive, non impedisce affatto a quelli che vivono la condizione obiettiva –
condizione che la parola “classe” serviva proprio a designare – di sentirsi
collettivamente abbandonati da chi gli predicava i benefici del “legame
sociale”, insieme all’urgenza di una “necessaria” deregolamentazione
dell’economia e di un altrettanto “necessario” smantellamento dello stato
sociale. Di conseguenza interi settori delle fasce più svantaggiate si
diressero, per un effetto quasi automatico di ridistribuzione delle carte
politiche, verso quel partito che sembrava l’unico a preoccuparsi di loro e
che, a ogni modo, offriva un discorso che si sforzava di ridare senso alla loro
esperienza vissuta. E questo avvenne nonostante l’alta dirigenza di questo
partito non fosse affatto composta da membri provenienti dalle classi popolari,
al contrario di quello che si era prodotto con il Partito comunista, in cui si
faceva molta attenzione a selezionare militanti che provenissero dal mondo
operaio, in cui gli elettori potessero riconoscersi.
I movimenti.
Ai movimenti sociali spetta innanzitutto il
compito di costruire quadri teorici
modalità politiche di percezione della realtà che permettano non di
cancellare – lavoro impossibile – ma di neutralizzare al massimo le passioni
negative che agiscono nel corpo sociale, in particolare nelle classi popolari.
Ai movimenti spetta il
compito di offrire altre prospettive e di delineare il futuro per una sinistra
che potrebbe, ancora una volta, dirsi tale.
La forza e l’interesse di una teoria risiede
precisamente nel fatto che non si accontenta mai di registrare le parole che
gli “attori” pronunciano sulle loro “azioni”, ma al contrario si dà come
obiettivo di permettere agli individui e
ai gruppi di vedere e di pensare in modo diverso ciò che sono e ciò che fanno
e, magari, anche di cambiare ciò che fanno e ciò che sono.
L’ingiuria.
Perché certe categorie di popolazione devono
portare il fardello di queste maledizioni sociali e culturali di cui si fa
molta fatica a concepire cosa le motivi e susciti instancabilmente? Non c’è
risposta se non l’arbitrarietà dei verdetti sociali e la loro assurdità. E’
inutile cercare il tribunale che pronuncia questi giudizi. Non ha sede. Non
esiste. Arriviamo in un mondo in cui la sentenza è già stata emessa e noi
arriviamo a occupare i posti di quelli che sono stati condannati alla pubblica
vendetta, a vivere con un dito accusatore puntato contro. Non resta che cercare,
nel bene nel male, di proteggersene e di riuscire a gestire questa identità
guasta, come recita il sottotitolo inglese del libro Stigma di Erving Goffman.
Per quanto possa sembrare paradossale, sono
convinto che il voto per il Fronte nazionale debba essere interpretato, almeno
in parte, come l’ultimo ricorso degli ambienti popolari in difesa della loro
identità collettiva, di una dignità che ormai sentivano sempre calpestata,
proprio da quelli che un tempo li avevano rappresentati e difesi. La dignità è
un sentimento fragile, incerto di sé. Ha bisogno di conferme e sicurezze.
Richiede prima di tutto che non si abbia l’impressione di essere considerati
come una quantità insignificante o come semplici elementi di tabelle
statistiche, o di bilanci contabili, in altre parole come oggetti muti della
decisione politica. Per questa ragione, se quelli a cui si è data fiducia non
la meritano più, la si ripone in altri. E ci si indirizza, di volta in volta,
verso nuovi rappresentanti.
Arriva un momento in cui si tramutano gli
sputi in rose, gli attacchi verbali in ghirlande di fiori, in raggi di luce. In
breve, un momento in cui la vergogna si trasforma in orgoglio… E quest’orgoglio
è politico dall’inizio alla fine, poiché sfida i meccanismi più profondi della
normalità e della normatività. Non si riformula ciò che si è partendo da zero.
Si compie un lavoro lento e paziente per forgiare la nostra identità a partire
da quella che ci è stata imposta dall’ordine sociale.
Credo che una delle ragioni per cui le
persone rimangono aggrappate così tenacemente ai loro odi sia perché intuiscono
che, una volta sparito l’odio, saranno costrette ad affrontare il dolore.
L’importante non è
quel che si fa di noi, ma quel che facciano noi stessi di ciò che hanno fatto
di noi (Sartre)
Spunti (solo uno dei mille fili possibili, a partire dalla lettura)
Gli appunti sono sempre parziali. E i ragionamenti sono sempre più complessi. Ma trovo sia un libro da leggere. E di cui discutere. Per la riflessione che apre e l’atteggiamento in cui si pone. Osservare, mettersi nei propri panni e in quelli dell’altro, provare a capire. C’è sempre una parte di verità nella posizione dell’altro. E quel pezzo di verità ci serve. E fa persino parte di noi.
Guardando
alla provincia, che è sempre altrove, rispetto alla città. Ma la storia non è
fatta solo di ciò che avviene in città. E la provincia, se non ascoltata, si
prende le sue rivincite. E
la provincia è tanta gente.
Le
classi, non sono più una categoria che usiamo. Ma le disuguaglianze sono
ancora presenti, e si accentuano. E si aprono a nuovi orizzonti globali. Cosa
sono le migrazioni se non il tentativo di trovare risposta ad una profonda
disuguaglianza? Ad oggi è un tentativo per lo più individuale o famigliare. Sfruttato
e governato da interessi economici e mafiosi. Ma non è nemmeno corretto ridurre
tutti i migranti a vittime inermi, a persone che semplicemente sono scappate
perché non avevano altra opportunità. I migranti, per lo più, sono persone che
hanno fatto una scelta. Hanno assunto, rischiando moltissimo, un protagonismo
nelle propria vita. Posso trovare illegittimo questo movimento solo se dichiaro che un mondo diviso in caste è giusto.
Gli allargamenti dei diritti, nella storia, però, purtroppo, non si sono quasi mai verificati per spontanea concessione di chi li aveva. Per lo più sono frutto di lotta di conquista di chi era escluso.
E allora, cosa succederebbe se questa spinta migratoria da fenomeno individuale trovasse
una coscienza collettiva? E si trasformasse? E, se ognuno si definisce a partire
da come la società lo determina, che responsabilità abbiamo noi di fronte a
come questa spinta si trasformerà? In serbatoio per il terrorismo, in guerre diffuse, in lotta di
redistribuzione o in ricchezza e progresso
collettivo?
Ciò
che manca, oggi, non può essere solo una maggiore accoglienza. Ma riconoscere questo non significa invocare automaticamente maggiore rigore. Ciò che manca è una politica che provi a
prendersi carico di questa disuguaglianza e che provi a governare in modo
diverso l’istanza di giustizia ed opportunità.
Perchè,
no, non è normale che una famiglia mandi allo sbando un figlio di 15 anni e poi
lo lasci solo in un centro di accoglienza, fino a che diventa adulto, perché
questa è l’unica strada che vede come possibile per una ascesa sociale. Di fronte a questo,
non possiamo dire che la risposta è “va bene così, accogliamo questi ragazzi”.
Le persone che abbiamo di fronte hanno un valore. E per questo non possono
essere lasciate allo sbando. Ma la politica, in prospettiva, deve costruire
modalità diverse. Deve dire che questo modello è disumano. Non per
colpevolizzare chi parte o chi manda. Ma per offrire opportunità differenti
alla legittima aspirazione delle persone ad una maggiore giustizia e
redistribuzione.
Ma
redistribuzione non può essere solo tra scartati (o a rischio
di scarto). Se l’immigrato è quello con cui competo per il posto al nido, per
la casa popolare, persino per il posto in comunità o per il pacco di aiuti alla
Caritas… è ovvio che chi ha bisogno di nido pubblico, comunità, aiuti e casa
popolare sarà colui che vivrà più con fatica l’accoglienza. Non si tratta di
giustificare gli odi, piccoli o grandi. Si tratta di capire. E soprattutto di
allargare lo sguardo. Serve, anche a casa nostra, una diversa redistribuzione
della ricchezza e delle opportunità. E serve che riparta un movimento in questo senso.
(p.s. e naturalmente grazie a Mauro, al solito, spacciatore di punti di vista utili).