Appunti, non rivisti dall'autore, dell'intervista di D'Angella a Nicola La Gioia nell'ambito del 4° Incontro di Animazione Sociale il 16.11.2017 a Torino.
Nicola La Gioia: Ho fatto un’esperienza interessante in giro per l’Italia. Ho incontrato numerose librerie indipendenti che rappresentano oggi, in Italia, l’espressione di luoghi vitali. Luoghi che non sono solo vendita, ma persone che si intendono come luoghi di incontro e di produzione culturale.
Quali ingredienti servono per gettare uno sguardo in avanti?
La cultura è il punto cruciale per fare
società oggi. Le tensioni sociali
sono il cemento per il senso del possibile.
Le librerie sono uno dei luoghi in cui è possibile. Succede
spesso con le librerie indipendenti. Sono luoghi in cui rifondare delle
comunità. Una libreria non è solo un luogo in cui si vendono libri. Ma è un
posto in cui si fa supplenza. La politica non mi sembra tanto in grado, in
questi anni, di produrre comunità, al massimo produce comunità mosse da
passioni tristi (non solo in Italia e in Europa), la politica oggi produce
comunità che per tenere assieme hanno bisogno della costruzione del nemico. Le
comunità che, a volte, si fondano nelle librerie, si fondano sul confronto,
sulla accoglienza.
Le librerie sono posti in cui c’è un librario che deve far
quadrare i conti, deve non farsi spazzare via da Amazon. Sono cresciuto nelle
librerie Feltrinelli nel tempo in cui Stefano Benni raccontava tutte le
bestialità dei lettori nelle librerie. “Scusi, ha Il processo di Kafka, ma non
so chi è l’autore?” Oggi è il contrario, il lettore va nella libreria di catena
e chiede Il processo di Kafka e il commesso risponde “Un attimo che controllo
sul computer chi è l’autore”. Se il libraio diventa un hostess o uno stweart…
Ho vissuto a Roma, dove le librerie indipendenti sono state
spazzate via, da Amazon ma anche dal fatto di non essere state tutelate dal
nostro sistema di leggi. In Francia se una libreria fallisce fallisce, ma un
negozio di borse non può aprire al suo posto, un bar non può occupare il luogo
di una libreria che fallisce. In Italia non c’è una politica protettiva, rispetto ai libri.
L’anno scorso sono venuto qui a Torino, è stato uno shock
culturale. Mi avevano detto: non pensare di essere arrivato in una piccola
Parigi, sei in una grande Cuneo. In realtà Torino è metà Cuneo e metà Seattle.
Da una parte c’è una città che parla la lingua del presente avanzato,
dall’altra è provincia profonda.
A Torino ci sono tante istituzioni culturali. Io non le
avevo mai viste così tante istituzioni, tutte assieme, in uno stesso
territorio. La cosa bizzarra è che spesso queste istituzioni non si parlano tra
loro. Io, da meridionale, sono abituato a parlare con il dirimpettaio. Qui
spsso non ci si parla. E se chiedi perché ti rispondono: 10 anni fa c’è stata
una discussione con il presidente di allora… c’è una sorte di diffidenza nei
confronti del dirimpettaio... Torino è la lingua del presente ed è “Non si affitta
ai meridionali”. Le cose si mescolano. E
mescolandosi si attenuano, si trasformano. Una volta che scansi il pregiudizio
rispetto all’altro, scopri che puoi collaborare, che condividere qualcosa,
scopri di non essere il proprietario esclusivo di ciò che si fa, che ci si può
aiutare.
D’Angella: L’idea della
connessione, del collaborare, del sentire la proprietà collettiva… Ha molto a
che fare con il “fare società”. L’idea della collaborazione, del creare, del
connettersi è molto bella, ma difficile… Dal tuo punto di vista, dalla tua
esperienza, cosa effettivamente può far scattare? Cosa aiuta a superare il
senso di proprietà del proprio prodotto e propria idea…?
La gioia: Direi
l’inclusione. Questo è dimostrato da quanto gli scrittori e gli
intellettuali sono disposti, pur essendo quelli che scrivono di letteratura
(cioè mestieri poveri, in cui non si guadagna molto) a fare militanza. A
lavorare gratis. Non dovrebbe essere, ma succede.
Ma il punto è la condivisione. Ho collaborato con una
piccola rivista, campata per 20 anni: Lo straniero, di Goffredo Fofi. Tutta la
cultura nasceva lì. Non mi pagavano. Ma qual è la differenza? I giornali ti
commissionano un pezzo: “Vuoi scrivere un pezzo sull’ultimo libro di… tot
tempo, tot soldi, tot battute”. Non
partecipi alle riunioni di redazione. Nella nostra rivista rivista invece ci si vedeva, ci interessava capire,
confrontarci, litigare, restare fino a tardi. Se non fosse che devi
campare, questo è più importante. Ma il fatto che si debba campare, non toglie
che questo sia un bisogno primario. Altrettanto quanto quello di guadagnare o
di avanzare professionalmente… Purtroppo le diverse cose sono difficili da
tenere assieme, ma il bisogno resta e ha bisogno di un modo per trovare
sviluppo.
Il salone del libro, rispetto a cose tipo Minimu Fax, è un
tentativo di tenere assieme le due cose. L’anno scorso tutti, compreso i torinesi, mi facevano le
condoglianze. Hanno chiamato te da fuori
perché, siccome ci si andrà a schiantare, meglio si schianti con un non
torinese. C’era una situazione talmente critica che non mi dimenticherò mai i
primi giorni, dovevo andare in aeroporto e ho preso un taxi con un tassita
arrabiatissimo, “Perché è arrabbiato?” “Perché no non si farà più il salone del
libro, lo farà Milano, andrà via il lavoro…” “Guardi… io sarei il direttore, le
assicuro che il salone si farà”. Poi chiedi, quale è il badget? Cosa c’è già?
Un deserto… Ma impari che se chiedi aiuto, magari uno è incasinato e non ti dà
retta, ma magari l’altro si. La Scuola Holden, abbiamo parlato, si, vi aiutiamo
a fare i social. Mi sono fatto un giro per l’Italia. Ho incontrato persone:
Ragazzi, se ci mettiamo insieme, voi ci portate idee, magari riusciamo a fare…
la condivisione… Gipi ha fatto il manifesto…”
Il presupposto è: non è che stiamo facendo il salone perché
si deve fare, per dare lustro alla città, per i politici che si devono fare
belli, per guadagnare due lire, per sopravvivere... Queste non sono cose che
trascinano… Stiamo facendo il salone del libro perché abbiamo la possibilità di
spostare qualcosa. Tu vuoi spostare qualcosa? Fare un salone del libro che si
chiama “Oltre il confine”, nell’anno in cui arriva Trump. Mettere un libro che
scavalca un muro nel manifesto, nell’epoca in cui i muri si vogliono costruire.
E’ fare politica culturale. Prendere posizione.
Le vetrine non servono. Non succede niente in vetrina. Per
far succedere qualcosa devi essere schierato. “Si, ma difficile esserlo se il
salone lo hanno dato a noi ma… il pallino in mano ce l’ha la politica….” “Ok,
ma proviamo, vediamo cosa succede, ci stai?”. Poi è andato bene, ma prima non
lo sai come va. Rischi. Così, con un pensiero alto, con l’idea di cambiare il
mondo, riesci a coinvolgere, anche senza tanti soldi, persone che altrimenti ti
direbbero come prima cosa: ok, ma quanto mi pagate?
D’Angella: Come
l’esperienza di queste giornate. Che nascono con una rete di 140 persone che
verranno con l’idea di portare il proprio contributo. Chiedere non fa male. Uno
può dire di si. E può dire di no. E’ legittimo. Ma c’è chi ti dice di si.
Andare oltre il confine, oltre l’appartenenza. Mettere al centro la possibilità
di fare qualcosa insieme. Mi viene in mente l’intervista a Remo Bodei: il
problema grosso è la memoria. Abbiamo una memoria molto piena di ricordi, di
ideali, di pensieri, ma questa memoria non ci aiuta. Ci inchioda nel tempo che
fu. Nel tempo vissuto. Oggi serve potenza alare. Serve stare nella realtà, ma starci in maniera da poterla attraversare
con l’immaginazione e la leggerezza. Come quando si fa surf. Deve andare
incontro alle onde, ma non buttartici dentro. L’idea di produrre con altri
qualcosa, di produrre idee...cosa vuol dire in questo momento storico? Stare
nella realtà ma vedere oltre. Come nella definizione di don Ellena: Stare in
situazione, ma vivere in prospettiva. Prospettiva. Visione. Quale è stata,
quale è la tua prospettiva, la tua visione?
La gioia: ci sono
almeno due elementi che possono scattare e che sono veramente sovversivi: Il
primo è fare, in luogo di non avere fatto. Questa non è vanità. Sono stato 20
giorni tra USA e Canada. A fare un giro per istituti di cultura… mi faceva
venire orgoglio di essere europeo e frustrazione. In Europa abbiamo una
dimensione verticale che in altri continenti manca. Dimensione del tempo. Per
loro lo è di meno. Come se ti mancasse sempre qualcosa. Come se ti accorgessi
che l’identità europea si riconosce solo quando sei fuori dall’Europa. Mai
visto un francese così ansioso di abbracciare un tedesco, mai visto un italiano
così rassicurato dallo sguardo di un portoghese. Quando sei in altri continenti
questo capita. In Europa c’è una dimensione verticale che è diversa che
altrove…
Noi spesso ci arrendiamo perché andiamo alla ricerca di una
scusa, per non metterci in gioco. Abbiamo ragione di lamentarci. Ovviamente.
Tutte le ragioni contro esistono. Ma questo cupio dissolvi è un modo per non
darsi da fare. C’è cinismo diffuso. Nulla vale la pena, perché tutto è già
determinato. Ma tu fai parte del contesto. Pr quanto tu possa avere un ruolo
marginale, fai comunque parte del contesto. Se fai parte del contesto, hai
comunque la possibilità di far scattare
in te qualcosa: se non ti piace, prova a cambiarlo. Magari fallirai. Ma prova.
Non importa il cosa. Quello in cui ti scatta:
non ti piace la casa editrice? Fanne una tu. Scrivi un libro, apri un
locale… sei parte del contesto. A volte sembriamo un po’ allergici a tutto. Ed
è un po’ vile essere così allergici.
I grandi critici italiani oggi dicono: la letteratura è
morta. Può essere, ma ne fai parte pure tu. Fai qualcosa. A volte la gente scambia
il proprio stato di salute con il mondo. Tra soggetto ed oggetto a volte ci
sono scambi. Darsi possibilità di agire, nel proprio tempo, è proprio lo scatto
determinante che serve oggi. La differenza essenziale che trovo tra nord
America ed Europa è che loro prendono molto sul serio la loro puerilità. Noi
prendiamo in modo puerile la nostra maturità.
Condividere qualcosa, oggi, significa avere una missione
culturale. Non c’è cultura sensata che non faccia il contropelo al tempo in cui
si vive. Oggi è il tempo dell’”I” su tutto. Ma un “I world” sarebbe
inimmaginabile. Perché il mondo è il posto del noi, non dell’io. L’autoinganno
è ritenere di poter autodeterminare la propria identità contando solo su noi
stessi. Non esiste nè mai esisterà. Noi ci determiniamo nel confronto con
l’alterità. L’Illusione di autodeterminarsi da sé è una trappola di questo
mondo. Abbiamo bisogno di imparare. Certo. Ma grazie a Dio il passato ci
assiste. Abbiamo un grande passato di condivisione e abbiamo una facilità di relazione
che altri popoli non hanno. Mettiamoli a frutto.
Sembrano tutte cose molto elementari, ma mi pare che una
delle missioni di comunità e di gruppo da darci oggi passi da qui.
D’Angella: Cosa
vuol dire oggi il dialogo sulle idee, sulla immaginazione? Quando scrivi un
libro, devi raccontare delle storie. Devi far dialogare le storie con chi le
legge.
La gioia: La
letteratura è una bestia a sé. Può permettersi di fare tutto ciò che non
possono permettersi di fare altre forme comunicative, come il giornalismo. Il
giornalista deve essere chiaro, la politica non dovrebbe essere ambigua. La
letteratura invece, dovendo imitare la vita, deve permettersi di restituire
tutta la contraddizione, tutto il mistero, tutta l’ambiguità che fa la nostra
vita sulla terra quello che è. Quando scrivo un romanzo mi metto in un mood del
tutto diverso, da quando provo ad organizzare il salone del libro. Scrivere un
romanzo è un lavoro solitario, dopo consegnato ad altri.
Una poesia di Montale, di Campana, contiene un meccanismo
verbale che non è facile da smontare (e non è giusto chiamarlo meccanismo).
Come il nodo che ci tiene insieme è
difficile da smontare. Si gioca in un altro campionato. L’arte è una delle
forme più alte della vita.
Ma io non ho un carattere che mi fa stare chiuso 4 anni in
un stanza per scrivere un libro. Ho bisogno di isolarmi per scrivere, ma ho
bisogno di uscire e confrontarmi con altri.
Se dovessi scrivere un pezzo su… diciamo per fare un
esempio, su Brunetta. Facilmente, non avrei difficoltà ad usare la tastiera
come una spada, che separa il bene dal male. Non avrei difficoltà, perché non
sto criticando la persona, ma le idee. Se invece devo scrivere un romanzo, e il
protagonista del mio romanzo fosse Brunetta o fosse Salvini, quello diventerebbe
subito mio fratello. Se sto solo sulle idee, non mi interessa se è così perché
il cugino lo affogava nelle calle di Venezia o perché è così di suo. Un romanzo
ci fa sentire nella stessa barca. Scrivendo un romanzo (ma anche leggendolo)
empatizziamo. Troviamo l’altro in sè.
Non devi aver provato tutto ciò che metti in un romanzo per scriverlo, non devi
essere un assassino per scrivere una storia con un assassino. Ma devi andare a
rintracciare l’assassino che è in te, per renderlo credibile. Trovare l’altro
in me. Permettere l’empatia. Questo fa la letteratura.
Don Abbondio che incontra i bravi. E’ una scena stupenda. La
scopri la prima volta che li rileggi da adulto. Ci trovi i successivi 160 anni
di letteratura. Quando la lessi, scoppiai a ridere. Da scrittore che volevo
diventare, risi. Far ridere è più difficile che commuovere.
La scena, i bravi incalzano, ad un certo punto fanno il nome
di don Rodrigo, don Abbondio si cala le braghe, ma prima ad un certo punto lui
dice “… cioè…”. Cosa è questo “cioè” che
lui oppone ai bravi? Non vuol dire niente. Non vuol dire si, non vuol dire no.
E’ il vuoto pneumatico che don Abbondio mette tra se e la porcata che sta per
fare. In quel vuoto mentre leggi vai a rintracciare la tua parte nascosta. Le
volte che ti sei sentito don Abbondio. La letteratura ha il potere di uno
sciamano, evoca da dentro di te le cose anche più inconfessabili. E facendo
questo ci fa sentire nella stessa barca dell’umanità.
D’Angella: interessante questa dimensione delle idee
come spade dello scrivere come modo per mettersi in
contatto, dentro di te, con l’alterità. Rapportarti con l’altro come quello che
devi comprendere. Interessante che questi personaggi, quando li scrivi, siano
immediatamente tuoi fratelli, il fatto che tu hai bisogno di entrare nella loro
storia.
Levinas: dialogo è il volto dell’altro che ti interroga. C’è
l’dea che forse il fare società è effettivamente oggi questo, abbandonare idee
che diventano spade e aprire immaginazioni che diventano immedesimazioni…
Tabucchi, Pereira… in fondo noi abbiamo bisogno di costruire
il parlamento interiore. Far dialogare le tante parti che abitano in noi.
Incontrarle, farle parlare, farle dialogare tra di loro. Tutto il lavoro
sociale è come costruiamo l’incontro. Il rapporto tra l’incontro, le idee, la
realtà.
C’è separazione tra chi sta nella realtà, chi costruisce
l’immaginario, chi prova a fare una narrazione sulla realtà. Chi sta nella
realtà oggi riesce poco a costruire un’immaginario in cui gli altri possano
ritrovarsi.
La gioia: questo
devi saperlo più tu che me. Ma, provando a gettarmi nella mischia... Così come
per te sarebbe interessante capire come funziona la scuola Holden (dove si fa,
diciamo la parolaccia, lo story telling)
per loro sarebbe interessante il contrario. Interessante che uno scrittore sia gettato in un contesto che è
quello in cui lavorate voi. Perché, oltre ad annusarsi, i due mondi si possano
frequentare. Pensare a progetti condivisi. Far toccare all’uno la realtà
dell’altro. Quel tipo di indagine, l’indagine letteraria, è una istruttoria non
finalizzata a gradi di giudizio, dove comprendere è più importante di
giudicare. Anche questo è fare il contropelo al nostro tempo. Oggi su qualunque
faccenda, il giudizio è più importante della comprensione. Ma il giudizio in
sé, non ti aiuta a capire. Se, in modo rabbioso, metti uno sugli allori e
l’altro dietro la lavagna, non hai capito nulla, né di uno né dell’altro.
Questo esiste anche fuori dalla letteratura. Per esempio, mi
sembrava, il modo in cui si è concluso il conflitto in Sud Africa, mi pare
molto diverso da come si è conclusa l’esperienza del ventennio fascista in
Italia. Processi di riconciliazione, tra oppressi e oppressori. Sono processi
di comprensione. Come certe esperienza
sul terrorismo. Non negare la realtà, ma
riconoscersi tutti esseri umani. Trovare il punto comune. Riconoscerlo. Questo è il difficile oggi. Tutti abbiamo
voglia di gettare la croce addosso ad un altro e non mettersi sullo stesso
piano.