Sull'invecchiare




Non sono nella generazione che ha superato i 70. Non sono parte dell'esercito in rotta. Ma comprendo a pieno la sensazione di delusione per come sono andate le cose. E il senso di responsabilità sul non aver saputo consegnare e tramandare. Con l'aggravante (per quelli quasi 50 come me) di sentire, in fondo, che è già iniziata la fase in cui è bene far spazio ad altri, coltivando ancora la sensazione di non aver mai avuto realmente la possibilità di giocare a pieno la partita. 
Con la variante materna. Per cui, da quando è accaduto che un altro è cresciuto dentro di te, sai che in fondo non sei più pienamente padrone del tuo spazio e del tuo tempo e nemmeno delle tue energie e dei tuoi progetti. Potresti fare una guerra di legittima rivendicazione, per sostenere il tuo essere persona e donna. Ed ogni tanto lo fai. Ma col tempo scopri che è valore anche accettare che, per qualcuno, tu possa essere prima di tutto "un luogo". E che "far spazio" è un tratto costitutivo dell'esistenza. 
La lettera è bella. E prepararsi alla vecchiaia è prepararsi a vivere bene la vita da vivere. Quindi, a 70enni e non, in questo periodo di compleanni, ne consiglio la lettura. 

Cari amici,
che state invecchiando con me, approfitto di questa permanenza in Brasile per raccogliere qualche riflessione sul dato empirico del mio invecchiamento, come pure di quelli che appartengono alla mia generazione.
Quale generazione? Proprio da questo interrogativo vorrei partire. La mia generazione è figlia di una guerra tragica e quindi di un passaggio d'epoca nella storia dell'Italia: la fine del fascismo, la repubblica, la costituzione. Fatto sta che la mia generazione è figlia della pace, del lavoro, del benessere crescente, degli studi offerti gratuitamente; poi, del Concilio, delle riforme sociali, dell'incontro con l'Europa, dei singulti terroristici che hanno accompagnato la caduta del comunismo.
È vero che nessuno ci ha regalato niente: intendo dire che la fatica, l'impegno, il fervore progettuale hanno testimoniato inequivocabilmente quel nostro modo d'essere che ci ha consentito di affrontare spesso contrarietà di ogni genere. Ma è pur vero che le stesse congiunture generali di ordine storico (sociale, politico, economico, religioso) ci hanno comunque incoraggiato ad affacciarci su immensi, sconfinati orizzonti di crescita umana, morale, teologale.
Attualmente, ormai superata la soglia dei settant'anni, la mia generazione mi appare come un esercito in rotta. I dati di ordine materiale sono evidentissimi: la resistenza fisica viene meno, i malanni si diffondono, la morte lascia dei vuoti nelle nostre file, le disponibilità economiche vanno esaurendosi, gli orizzonti relazionali si restringono. Ma questi dati, in fondo, appartengono all'ordine della naturale evoluzione delle cose, di generazione in generazione. Il fatto è che, oltre ai dati materiali dell'invecchiamento, mi sembra che ci sia altro da considerare. Non intendo riflettere sulle cause delle cosiddette "crisi" che hanno fratturato le nostre vicende personali, sociali, ecclesiali. Altri, e in altra sede, ci spiegano - o ci spiegheranno - tante cose.
 Quello che mi sembra di poter cogliere nella nostra generazione, su cui vorrei riflettere con voi, consiste in un fascio di segnali provenienti dai circuiti interiori dell'animo nostro.
Noto, infatti, che serpeggia una forma di delusione per come sono andate tante cose. L'impressione di non aver combinato quasi niente è ancora semplicemente come un velo che appena adombra il discernimento interiore; più preoccupante è il pensiero di non poter trasmettere quello che abbiamo ricevuto; ma più drammatico ancora è il sospetto di aver reso la nostra generazione responsabile di danni dei quali subiranno le conseguenze le generazioni future. Non mi riferisco soltanto ai danni di ordine ambientale, ma più ancora di ordine morale - quanto a frantumazione delle coscienze, privatizzazione degli obiettivi, spietatezza delle metodologie comportamentali - per non dire quelli di ordine pastorale: mi riferisco a una mancata evangelizzazione, a uno spreco di occasioni di testimonianza, a una rinuncia al linguaggio della gratuità. 
Mi rivolgo, dunque, a quelli della mia generazione, che arrancano come me e registrano nel loro vissuto - poco o tanto - i segni di quell'invecchiamento che ho approssimativamente descritto. Non scrivo per discutere l'interpretazione del fenomeno, bensì per rilevare che la nostra vicenda assume un valore singolarmente provvidenziale. Intanto è evidente che non possiamo sfuggire al ridimensionamento generale del nostro sistema di vita: quel che capita a tutti i vecchi, che vanno registrando cosa vuol dire diventare piccoli, ritirarsi in qualche angolo, evitare gli ostacoli, misurare l'inopportunità di programmi a lungo - anzi, a medio o breve - termine. Ci si aggiunge quel certo senso di fallimento di cui parlavo, con la sottolineatura che non c'è più modo di rimediare.
Fatto sta che trovo nella mia vecchiaia una benedizione che vorrei condividere con voi. Mi sento parte, infatti, di una condizione umana che mi accomuna a una moltitudine di povera gente che si viene consumando, oggi come ieri, tra le pieghe dei nostri rivolgimenti storici. Mi rendo conto di essere sempre più spoglio di pretese, aspettative e previsioni; e mi sto pure rendendo conto che davvero l'evangelo si rivolge direttamente e festosamente proprio ai derelitti della terra. Se capitasse anche a me - al di là delle parole lette o dette - di trovarmi inserito di fatto in tale categoria umana, non sarebbe mai una vera disgrazia. Inoltre, proprio l'evangelo mi insegna che lo spazio vitale che la vecchiaia va progressivamente esaurendo si rende sempre più disponibile al linguaggio dell'amore: diventa lo spazio dell'affidamento per ricevere e per dare gratuitamente. Ma questo è veramente l'essenziale della vita, come ci ha insegnato il Signore, finché morire sarà quell'atto dimissionario che, in realtà, assumerà il valore di un atto di comunione universale: appunto un tramite d'amore unico e definitivo.
Così viene il Regno! E così la resa a cui la vecchiaia mi costringe mi colloca nel punto d'impatto dell'evangelo con la storia umana, là dove l'affanno dei poveri diventa profezia, là dove si illumina l'affaccio sulla parusia gloriosa del Signore. Ho da consegnare mani vuote, ossa stanche, pensieri confusi, progetti falliti, vergogna smascherata e tutto il dolore di un uomo peccatore: in ogni caso, ancora e sempre posso fare della mia morte un atto d'amore. Sarà l'eredità più preziosa che lascerò a quelli che verranno e che faranno meglio di me.
Vi invito tutti a rileggere e pregare con me il Salmo 71, a cui associo il cap. 21 del Vangelo secondo Giovanni, in particolare i vv. 18-19.
Quando vi consegno questo scritto siamo ormai sulla soglia dell'avvento (dopo il rientro dal Brasile sono stato catturato da diverse faccende); accogliete perciò anche i miei auguri per il tempo che la liturgia della Chiesa ci dona ancora quest'anno.
            Sotto il manto della Madre di Dio, vostro
                            
                                                                                      Padre Pino s.j.
P. S. Potete liberamente trasmettere queste righe a tanti altri amici della nostra generazione
Link alla versione a mano ed altri testi di Pino Stancari. http://www.incontripioparisi.it/stancari/vecchiaia.php


  

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