Se voi fa' anda' meglio il mondo, devi aiuta' la gente a fa' le cose de coscienza...


La sa la Madonnina, quella a largo Preneste?
Tutti i giorni ce passo. Tolgo le bottiglie, sistemo i barattoli, faccio un po' di pulizie.

'O vede il bastone? Ora lo porto pe' sicurezza. 
E pe' nun fa andà troppo in anzia mi fijo. 
Ma prima me ce strascicavo sopra. Quasi non camminavo più.
Da quando vado a la Madonnina...mo' cammino!

(Ride)
Mica è che ce so i miracoli fatti così..
È che se fai una cosa di coscienza, qualcosa prima o dopo ti torna.

Io c'ho 91 anni, sto in pensione da 21.
Mi moije l'ha richiamata 7 anni fa'. 
Che c'ho da fa tutto il giorno? 
Ho pensato, posso anda' a trova' tutti i giorni la Madonnina. 
E metteje un po' a posto casa...

E' una cosa di coscienza. 

Che ce vole pe fa le cose di coscienza? 
Ce vole de non esse ignoranti (che non vor di da esse annati a scuola...).
E ce vole da non avecce troppa paura addosso.
Se voi fa' anda' mejo il mondo, devi aiuta' la gente a fa le cose de coscienza.
Che poi vedrai, che quarcosa te torna pure a te.


Chiacchiera di signore 91 enne che chiede passaggio perché restato fermo sulla Prenestina per il blocco dei tram per il salto della corrente sulla tratta.

Europa: 3 cose da fare, lavorando attorno alle 5 grandi transizioni



Io non ho trovato altri strumenti per educarci alla comprensione dell’altro, se non viaggiare. In qualsiasi forma. Non solo migrare. Anche campi estivi o fare esperienze altrove. Dislocarsi, lasciare le sicurezze, le proprie conoscenze, andare in un territorio diverso, che sia uno spazio culturale con similitudini come l’Europa, o altrove. E’ una delle chiavi per aprirsi al mondo. Non c’è dubbio. 

Ai tempi in cui Gigi era presidente delle Acli, ero un fan dell’idea di rifare una battaglia per il servizio civile obbligatorio. Oggi sarei per imporre ad ogni ragazzo europeo una esperienza di almeno 6 mesi o 1 anno all’estero. Studio, praticantato, lavoro… all’estero. In Europa. Io credo sarebbe uno strumento straordinario. 

Però vorrei invitare a fare un’altra riflessione. Altrimenti rischiamo di guardare solo una parte della nostra popolazione. E di non considerarne altre, parti con le quali una parte del nostro mondo viene quotidianamente in contatto. Ma rischiamo di non capire la rottura sociologica e culturale che si è creata in Europa. 
Ho sempre trovato, e trovo ancora più pertinente oggi, una riflessione che faceva Herman Van Rompuy, al  termine del suo mandato in Europa. Faceva una doppia riflessione su persone e  ruoli. La prima è la distinzione fondamentale tra i movers e gli stayers. Senza andare nelle parti più recondite dei nostri paesi, ieri sera Paolo Petracca mi annunciava di voler fare un grosso piano di 150 incontri, nel milanese, per L’Europa. E mi diceva: se devo dire cosa ha fatto l’Europa “ai nostri”, non parlo del rooming, perché non interessa, a gente che non si è mai mossa. Per loro è più significativo il quarto gestore…  
Van Rompuy diceva: Ci siamo resi conto che l’Europa è fatta di queste due parti. I movers e gli stayers. Una grande attenzione, in termine di narrazione e di spinte e di politiche attive, guarda a questa parte che si muove. E non a chi sta. Dove è il problema? Non si sono ribellati i movers. Non si sono ribellati quelli che, anche controvoglia, sono stati obbligati ad andare oltre. Quelli che sono andati altrove, con mille difficoltà. Non sono questi che si sono ribellati, che hanno votato i populisti… Sono gli stayers. 

Io non ho i dati sull’Italia (sarebbe interessante andare a leggerli). Ma la mappa del voto in Polonia, quando vi fu il capovolgimento, era drammatica. Era una diagonale. Tutta la parte che aveva vissuto la straordinaria modernizzazione e ne aveva vissuto i benefici aveva votato i partiti conosciuti. Tutta la parte che aveva vissuto meno l’impatto della modernizzazione, che meno ne aveva beneficiato, ha votato ribellandosi. 

Se analizzate con il criterio movers e stayers la Brexit, è uguale. Se analizzate il voto degli ultimi 30 anni in Austria, è uguale. Le città più dinamiche, le parti più moderne, più aperte agli interscambi, sono quelle che nella globalizzazione hanno trovato una collocazione, magari non compiuta e problematica, ma l’hanno trovata. E’ il resto che si è ribellato. E con la ribellione ci siamo accorti che le politiche che facevamo non parlavano a questi. Ci siamo accorti che, a fronte di alcune grandi trasformazioni, quelli che hanno pagato il prezzo più alto sono gli stayers. 

Nuovi movers e identità multiple


Dopo questa presentazione…buffo sentirsi (donna, giovane, all’estero…) nel quadro un po’ sfortunato… della sfigata strutturale, per semplificare.... Non mi giudico tale, ma per certi aspetti sono assolutamente espressione di ciò che è stato detto prima. Già questo come introduzione è significativo. 

Quei grafici cosa ci mostrano? Ci mostrano che a livello individuale siamo portatori di tutti questi conflitti e contraddizioni. Siamo quelli che partono con una speranza di migliorare, esprimersi professionalmente… siamo anche quelli che soffrono per quasi una mancata relazione con il proprio paese d’origine.

Alcuni studi stanno dimostrano, su Parigi è evidente, che per i primi 3-4 anni gli expat non vogliono avere niente a che fare con la comunità degli italiani all’estero. C’è una partenza con rabbia che non è inconciliabile con la partenza per voglia di esplorare. Questi fattori sono tenuti assieme, nelle stesse persone. Per questo a Parigi abbiamo anche pensato ad un servizio con una brillante psicologa, per venire in aiuto a queste situazioni.  Ma se sono conflittuali a livello individuale, quando sollecitiamo le persone per ragionamento politico, è ovvio che il ragionamento politico tiene dentro anche questa conflittualità. 

Parto dal lavoro con gli italiani all’estero anche per raccontarvi quale è la realtà. Siamo 9 donne su 63 consiglieri. Siamo 5 di nuova immigrazione su 63. Il mio essere lì è un accidente della storia, della volontà e dello spirito agguerrito delle Acli, ma io la vivo come una ultima chiamata. Queste strutture istituzionali che abbiamo creato per tenere una relazione tra queste persone e l’Italia sono state create per la vecchia immigrazione, non riescono ad intercettare la nuova. La nuova immigrazione non si iscrive all’Aire, si stima che metà non si iscrivono al Registro degli italiani all’estero, in Europa. Nelle mie ricerche c’è qualcosa di più in extra Europa, probabilmente perché lì c’è più bisogno di restare connessi. Ma l’effetto è molto significativo.

Animazione è mettere al lavoro le energie positive


E' importante che ci sia tanta gente che sta mettendo in gioco la prospettiva. 
Per me è fondamentale intensificare lo scambio, perché spesso molte esperienze non usano il termine animazione ma la sostanza c’è. La sostanza è riscoprire e mettere in moto le energie positive di una nazione. Forse l’animazione è mettere al lavoro le energie positive. Se c’è una competenza delle Acli è il lavoro. Il mettere al lavoro. Far lavorare. La capacità di mettere la gente al lavoro. 

Risorse positive, energie positive. Questa è la stranezza. Molto del lavoro nell’ambito sociale mira sul problema. Sul bisogno. Quello che fa l’animazione è scommettere che nei territori ci sono risorse che possono mettersi al lavoro, anzi risorse che attendono di essere messe al lavoro attorno a problemi. 

Aggiungo una cosa. Non è che fino a che non c’è domanda, noi non andiamo, non partiamo. Nessuno comprende davvero la domanda fino a che non riceve una proposta. Fino a che qualcuno non gli rompe un po’. Fino a che non vede qualche risposta possibile. L’animazione scommette che, anche dentro la crisi attuale, sono risorse. Siamo freireiani, i temi generativi... Baumann... anche dentro l’attuale tempesta, anche nel quartiere più disgraziato, c'è qualcuno che ha già digerito la crisi. Quelle persone vanno interettate, perché sono portatori di anticorpi. Dietro l’animazione ci sta di non nascondersi il problema. Ma sapere che quelle periferie, quelle reti, quelle stesse che producono la malattia  e ammalano, quelle stesse sono anche reti capaci di curare. E che in ogni caso la soluzione dei problemi non va portata da fuori. Sei tu che devi entrare in quella cultura, capire dove si formano risposte. E in questo modo, aprire possibilità inedite per un quartiere, mettendo in gioco le forze che già esistono. Non possiamo aspettare...

Animazione è mettere al lavoro le energie positive


E' importante che c’è tanta gente che sta mettendo in gioco la prospettiva. 
Per me è fondamentale intensificare lo scambio, perché spesso molte esperienze non usano il termine animazione ma la sostanza c’è. La sostanza è riscoprire e mettere in moto le energie positive di una nazione. Forse l’animazione è mettere al lavoro le energie positive. Se c’è una competenza delle Acli è il lavoro. Il mettere al lavoro. Far lavorare. La capacità di mettere la gente al lavoro. 

Risorse positive, energie positive. Questa è la stranezza. Molto del lavoro nell’ambito sociale mira sul problema. Sul bisogno. Quello che fa l’animazione è scommettere che nei territori ci sono risorse che possono mettersi al lavoro, anzi risorse che attendono di essere messe al lavoro attorno a problemi. 

Aggiungo una cosa. Non è che fino a che non c’è domanda, noi non andiamo, non partiamo. Nessuno comprende davvero la domanda fino a che non riceve una proposta. Fino a che qualcuno non gli rompe un po’. Fino a che non vede qualche risposta possibile. L’animazione scommette che, anche dentro la crisi attuale, sono risorse. Siamo freireiani, i temi generativi... Baumann... anche dentro l’attuale tempesta, anche nel quartiere più disgraziato, c'è qualcuno che ha già digerito la crisi. Quelle persone vanno interettate, perché sono portatori di anticorpi. Dietro l’animazione ci sta di non nascondersi il problema. Ma sapere che quelle periferie, quelle reti, quelle stesse che producono la malattia  e ammalano, quelle stesse sono anche reti capaci di curare. E che in ogni caso la soluzione dei problemi non va portata da fuori. Sei tu che devi entrare in quella cultura, capire dove si formano risposte. E in questo modo, aprire possibilità inedite per un quartiere, mettendo in gioco le forze che già esistono. Non possiamo aspettare...

Beati i poveri (e la Costituzione e a proposito di cosa abbiamo sentito oggi)


Parte 1: le Beatitudini 


Sono tante beatitudini, ma in realtà è una sola. Nella storia della vita cristiana è prevalso, in modo sempre più forte, la beatitudine dei poveri. Come se le altre descrivessero e illuminassero la prima. I veri illuminati sono i poveri. La ragione è che Matteo, tra gli evangelisti, è quello che viene in modo più forte dal mondo ebraico. Per la fede ebraica la categoria della povertà è fondamentale nell’esperienza della fede. Noi come cristiani ci siamo un po' scostati da questo. Da 10 anni stiamo tornando. Perché stiamo ritrovando il libro dei padri ebrei. 

E’ stato un piccolo grassotto bergamasco, diventato papa, che ha voltato pagina e da lì è ricominciato un mondo. Ma il catechismo nelle parrocchie è ancora alla veccchia. Che in paradiso ci vanno solo quelli che se lo meritano. A fine messa in parrocchia io ho sempre dato un arrivedrci in paradiso, sempre sottolineando che sicuramente ci vedremo tutti in paradiso. Perché in paradiso non ci andiamo perché ce lo meritiamo, ma perché lui ci vuole bene. 

Come le mamme in sala. Se hanno 3 figli e due funzionano benone, sono capi scout, hanno brave fidanzate, e il terzo è un po' scapuzzo, le mamme che fanno? Sono sempre attaccate al terzo. Ci stanno dietro. Parlano bene di lui. E’ il cocco? No, è il più fuori. Più uno è fuori, più Dio lo ama. L’argentino che è venuto a fare il papa ha reintrodotto questo termine, anche se era un termine sempre stato nella nostra fede europea, il termine è misericordia.

Che differenza c’è tra amore e misericordia? Amore è sempre una cosa un po’ ricambiata. Misericordia è un amore da barricata. Da guerra. Tu non mi vuoi bene, ma io sì. Tu non mi vuoi bene, ma io ti aspetto. Se ritardi, ti vengo a cercare. L'amore di Dio è misericordia, è un amore senza fine, che farà si che malgrado non ce lo meritiamo, tutti siamo aspettati da lui. Questa cosa è sicura. Il crocifisso è il segno assicurativo di questa vicenda. Qualche volta nel linguaggio comune si dice: “ti voglio un bene da morire” non sempre è detto con sincerità. Ma è una frase importante. Che evoca la radice. C’è qualcuno che è morto d’amore per noi. Dio ha messo di mezzo questo segno, che segna che nessuno è fuori.

Con un gruppetto ho fatto un pellegrinaggio in Germania, nei campi nazisti. Per andare a riscavare e pregare sulle antiche memorie di questo colossale, inspiegabile, dramma. Ti vengono domande. Ma io anche di fronte a quelle domande, anche davanti a questi orrori, ho sentito che l’amore di Dio non cede. Bravissimo Dante, bellissima la Divina Commedia,  ma non credo che le cose vadano così. Tutta la storia è dominata dall’amore di Dio. Più uno non se lo merita, più è amato. Altrimenti si mettono dubbi sulla potenza dell’amore di Dio. Se anche lui deve rassegnarsi a condannare ed escludere….

Siamo noi i loro genitori, qui!



La figura del tutore volontario come forma di  genitorialità sociale 

E’ una questione di uguaglianza. Emerge la distanza tra il piano dell’affermazione dei diritti, nel quale il nostro paese è l’avanguardia, e il piano della loro attuazione concreta. E’ per questo che dobbiamo garantire a tutti i minori il loro presente, prima ancora che il loro futuro. E dobbiamo farlo noi, perché “Siamo noi i loro genitori”. Ha affermato il Garante Nazionale ponendo le basi del concetto di  genitorialità sociale applicata ai tutori. 

Ed è nelle parole dei diretti interessati che si possono ripercorrere le dimensioni di questo concetto di genitorialità sociale. 

Genitorialità sociale è “genitorialità condivisa" e consiste nella capacità di esercitare il proprio ruolo in modo non esclusivo, nella consapevolezza di condividerlo con altri” (una famiglia affidataria). 

Genitorialità sociale è “genitorialità leggera" perché non si assume la responsabilità economica del mantenimento, e non sceglie la convivenza. Ma soprattutto perché non si propone di trasformare radicalmente la vita delle persone, è “solo” provare ad essere un adulto di riferimento “sufficientemente buono” in mezzo a mille persone alle prese con un quotidiano complicato (un’ operatrice dei servizi)

“Non è un genitore. E’ una persona che sceglie di impegnarsi in un relazione significativacon un minore. E che sceglie di farlo socialmente, con un mandato esplicito della società, non in modo privato” (un garante regionale). 

“Non è un genitore, è un po’ uno zio. Lo zio buono, che non vive con te, che non vedi tutti i giorni. Ma da cui ti senti capito, con cui ti confidi e ti confronti per prendere le decisioni” (un tutore). 

“Un volontario competente, un microgarante” non nel senso di garante minus. Ma nel senso di garante per uno specifico ragazzo” (un garante regionale)

“Non sei tu e basta. Sei un’esponente della comunità locale che trova, finalmente mi verrebbe da dire, l’opportunità di fare qualcosa di concreto per sé e per gli altri. E nel farlo, trova l’occasione per conoscere maggiormente e sentirsi parte di quella comunità”(un tutore) 

Le metafore e le parole sono ancora tutte da costruire. Si tratta di sperimentare ed accompagnare. Sollecitando e promuovendo, in tutti, competenze educative e sociali nuoveQuel che è certo è che la scelta dei tutori può esprimere un recupero dei valori costituzionali che chiedono a tutti di svolgere un’attività utile a tutta la comunità (una presidente di tribunale per i minorenni). E quindi può essere una modalità, anche nuova, di esprimere cittadinanza sociale. 


Nel 2017 ho lavorato come Assistente Sociale in una comunità per minori stranieri non accompagnati. E a cavallo tra 2017 e 2018 ho frequentato un corso Asgi sulle forme giuridiche della tutela dei minori stranieri. E un corso alla Lumsa su "Lavorare con i minori stranieri non accompagnati". Nel frattempo è stata istituita la nuova figura dei tutori volontari. Il tutto mi ha portato a dedicare a questo aspetto il lavoro di project work.

Con una riaccolta di tutto il materiale disponibile sull'argomento scaricabile a questo link:



E con una riflessione su cosa l'introduzione di questa nuova figura comporta scaricabile a questo link:


E' passato qualche mese dall'aprile 2018, in cui questi lavori sono stati presentati.

Ma non avendo avuto tempo di lavorarci sopra in modo completo per dare un'altra forma, inizio a metterli a disposizione così come sono. Con un certo interesse per proseguire la ricerca, riflettere sulle idee e lavorare su altre forme possibili...





L'amicizia. A 10 anni.

Non si baciano, non si abbracciano,
non si chiedono com'è andata l'estate,
non commentano il taglio diverso dei capelli,
non si dicono "come sei cresciuto!"
(anche se a noi che li osserviamo è evidente...).

Incrociano veloce lo sguardo,
si salutano appena.
Ma si rituffano nel quotidiano
a giocare assieme,
come se fossero passati 5 minuti e non dei mesi.

E hanno la faccia felice.

L'amicizia. A 10 anni.

Il nonno (Vittorio) racconta il nonno (Attilio)


Quest'anno mio papà ha compiuto 80 anni. L'estate tutti assieme a Germignaga è stata l'occasione per sistemare alcuni ricordi raccolti durante l'anno. Ciò che ne esce diventa in qualche modo anche un regalo ai nipotini. Magari ci saranno delle imprecisioni e degli errori. E sicuramente ci sono molte parti mancanti.  Ma c'è del bello in una storia che si tramanda... 

Storie di famiglia 

Storie di una zona di confine, che fu industriale
Storie di lavoro  


Attilio Villa: Stradella 1876 – Germignaga 1957 - tracce di storia 

Da Stradella a Luino 
Il nonno Attilio proviene da Stradella, nell’oltre Po, dove ha iniziato a lavorare come garzone in una bottega che cura la manutenzione di attrezzi domestici e di lavoro.  Tra le sue mansioni ha anche quella, la domenica mattina, di affittare un “velocipede” alle persone che desiderano sperimentare le sensazioni delle prime rudimentali biciclette. Quell’impegno viene retribuito con 20 centesimi alla settimana, ma gli consente di familiarizzare con il lavoro di meccanico e di imparare ad organizzarsi.

La ferrovia e l’industria 
Il suo trasferimento a Germignaga è avvenuto, assieme al resto della famiglia, a causa della costruzione della ferrovia che ha impegnato tanti lavoratori per lo scavo dei terreni sui quali posare i binari. E per il traforo delle gallerie per l’attraversamento delle colline. L’arrivo di tanti lavoratori ha favorito anche lo sviluppo delle prime industrie che, nella zona di Luino, sono setifici e cotonifici che utilizzano la forza motrice dei fiumi e delle rogge. 

La Ditta Battaglia 
A Luino sia lui che (successivamente) il figlio Giovanni lavorano alle officine Battaglia. Che costruiscono macchine tessili per la filatura e la torcitura. Considerate le capacità meccaniche e di organizzazione del lavoro, il nonno Attilio è addetto alla messa in opera delle macchine, spesso anche nelle valli del Veneto e della bergamasca. Nelle sue trasferte cerca di insegnare non solo come utilizzare le macchine, ma anche e come partecipare alle “leghe” che organizzano i lavoratori e le lavoratrici. Dal momento che le operaie tessili sono ragazze (e spesso molto giovani) per poterlo fare senza inimicarsi i padri, impara a fare il cantastorie fuori delle osterie dei paesi. 

Bar e ristoranti


Domenica: Bar e ristoranti

E infine, non so se è progresso o la gentrificazione che avanza...

Centocelle è il nuovo Pigneto. Dicono quelli giovani.
Centocelle è il nuovo San Lorenzo. Dice chi ha qualche anno in più.
Centocelle è la nuova Garbatella, dicono gli intermedi. 

In ogni caso Centocelle, per chi oggi la frequenta, diventa uno state of mind. 

Chi non è di zona ne ride e minimizza. Ma ci tantissimi nuovi posti aperti negli ultimi tempi, molti piccolissimi, senza insegna, con unidea, un naming pensato e la pagina instagram aggiornata. E cè movimento. E cè pure chi finisce sul New York Times e fa arrivare i turisti. 

La domanda di fondo è sempre la stessa: dove passa la differenza tra migliorare la vita di chi abita il quartiere e sostituire gli abitanti con gente espellendo chi ha difficoltà e aggredando che ha più possibilità? 




I parchi


Sabato: I parchi

La lotta per (la difesa) del parco è un classico di ogni quartiere. Tagliare lerba, ampliare gli orari di apertura, la sicurezza, una o più uscite in più, il ripristino delle panchine… 

La differenza di utilizzo dei parchi la fanno gli alberi. I piccoli parchi alberati vedono nonni e genitori con passeggini. I grandi parchi assolati gente che porta a spasso il cane. E anziani che corrono e camminano. 

Sono moltissimi, d'estate, gli anziani, uomini, in pantaloncini e torso nudo, abbronzatissimi, che corrono e camminano nei parchi. Fanno il loro giro e rientrano. Si salutano, senza fermarsi. Qualcuno parla al telefono con la moglie a casa, avvicinando il bracciale in cui lo smartphone è infilato alla bocca. Raccoglie indicazioni sulla spesa da fare e dà aggiornamenti sul livello di pattume di questo o quel secchione. Limmondizia a Roma è sempre grande oggetto di conversazione. 

E poi cè il Parco di Centocelle. Che è leggermente fuori confine, pure se porta il nome. E coniuga infiniti temi in un parco solo. 

Cè il “no Pentagono”  che cerca di contrastare l’allargamento della Base Militare. E che soprattutto cerca di reperire e diffondere informazioni su una vicenda che continua a restare sostanzialmente segreta.  

Cè lannoso problema degli sfasciacarrozze. Che ci sono, hanno avuto lo sfratto. Poi no. Poi si. Poi si vedrà. 

Ma intanto continuano i roghi. La pagina facebook a tema lancia lallerta ogni giorno e le app segnalano quotidianamente peggioramento della qualità dellaria”. Qualche giornale di quartiere accenna persino parallelismi con la terra dei fuochi...



Terra, Casa, Lavoro, quello per cui lottate, sono diritti sacri.

venerdì: la casa

Ieri sera sono stata al Quarticciolo. Il comitato di quartiere ha organizzato un momento di incontro. E' stato proiettato "Sotto un cielo di Piombo". Con la storia della lotta per la casa a Roma.




E da incontro, dibattito e documentario mi è venuto in mente l'incontro del Papa con i Movimenti.
(...)   Terra, casa e lavoro, quello per cui voi lottate, sono diritti sacri. Esigere ciò non è affatto strano, è la dottrina sociale della Chiesa.   
(...) L’ho già detto e lo ripeto: una casa per ogni famiglia. Non bisogna mai dimenticare che Gesù nacque in una stalla perché negli alloggi non c’era posto, che la sua famiglia dovette abbandonare la propria casa e fuggire in Egitto, perseguitata da Erode. Oggi ci sono tante famiglie senza casa, o perché non l’hanno mai avuta o perché l’hanno persa per diversi motivi. Famiglia e casa vanno di pari passo! Ma un tetto, perché sia una casa, deve anche avere una dimensione comunitaria: il quartiere ed è proprio nel quartiere che s’inizia a costruire questa grande famiglia dell’umanità, a partire da ciò che è più immediato, dalla convivenza col vicinato.  
Oggi viviamo in immense città che si mostrano moderne, orgogliose e addirittura vanitose. Città che offrono innumerevoli piaceri e benessere per una minoranza felice ma si nega una casa a migliaia di nostri vicini e fratelli, persino bambini, e li si chiama, elegantemente, “persone senza fissa dimora”. È curioso come nel mondo delle ingiustizie abbondino gli eufemismi. Non si dicono le parole con precisione, e la realtà si cerca nell’eufemismo. Una persona, una persona segregata, una persona accantonata, una persona che sta soffrendo per la miseria, per la fame, è una persona senza fissa dimora; espressione elegante, no? Voi cercate sempre; potrei sbagliarmi in qualche caso, ma in generale dietro un eufemismo c’è un delitto. 
Viviamo in città che costruiscono torri, centri commerciali, fanno affari immobiliari ma abbandonano una parte di sé ai margini, nelle periferie. Quanto fa male sentire che gli insediamenti poveri sono emarginati o, peggio ancora, che li si vuole sradicare! Sono crudeli le immagini degli sgomberi forzati, delle gru che demoliscono baracche, immagini tanto simili a quelle della guerra. E questo si vede oggi.  
(...) Quanto sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che uniscono, relazionano, favoriscono il riconoscimento dell’altro! Perciò né sradicamento né emarginazione: bisogna seguire la linea dell’integrazione urbana! Questa parola deve sostituire completamente la parola sradicamento, ora, ma anche quei progetti che intendono riverniciare i quartieri poveri, abbellire le periferie e “truccare” le ferite sociali invece di curarle promuovendo un’integrazione autentica e rispettosa. È una sorta di architettura di facciata, no? E va in questa direzione.  
Continuiamo a lavorare affinché tutte le famiglie abbiano una casa e affinché tutti i quartieri abbiano un’infrastruttura adeguata (fognature, luce, gas, asfalto, e continuo: scuole, ospedali, pronto soccorso, circoli sportivi e tutte le cose che creano vincoli e uniscono, accesso alla salute — l’ho già detto — all’educazione e alla sicurezza della proprietà. 
Dal discorso di Papa Francesco ai movimenti popolari. Ottobre 2014.

Gli edifici



Flanerie a Centocelle
Giovedi: Gli edifici

La facciata è l'elemento gerarchicamente rilevante del progetto. 
Ad essa è attribuito il compito della relazione con la città. 

Le Corbusier

Uno dei problemi già gravi dell'architettura attuale è quello dell'unità urbana. 
Si tratta dell'armonia tra gli edifici, i volumi, le altezze e gli spazi liberi 
che costituisce l'architettura della città. 

Il problema non è specificamente legato al linguaggio del singolo edificio, 
ma ad un ordine di rango superiore, a scala urbana, 
in grado di attribuire a parti di città una specifica riconoscibilità. 

Le relazioni tra le parti vengono prima del linguaggio delle singole parti. 

Niemeyer

Non è il vuoto a creare degrado. E’ ciò che c’era e che non è stato curato, ciò che è stato abbandonato. Il problema è sempre il “dopo”. Come a dire che in ogni inaugurazione c’è una potenziale problematicità.  In ogni ordinaria manutenzione una agita responsabilità. Eppure festeggiamo le prime, ignoriamo le seconde. 

Luoghi abitati. Luoghi abbandonati. Luoghi occupati. Luoghi rigenerati. Luoghi gentrificati. 

Nessuno status resta immutabile. Nemmeno quello di legalità. Se la delibera 26/94 del Comune di Roma dice che si può assegnare un bene ad un’associazione per uso sociale, regolarizzando, a un decimo del prezzo di mercato, ciò che prima era abbandonato, poi occupato e che così diventa gestito, vissuto, abitato. In questo, i casali, qui, fanno storia. Casale Falchetti, Casale Garibaldi…

Due massicci (il Forte Prenestino e l’Aereoporto Baracca) influiscono da sempre su questo spazio urbano. Il primo, struttura militare da fine 800, dal 1986 è un centro sociale occupato ed autogestito. Il secondo, struttura militare da inizio 900, oggi intreccia la vita di un parco e riattiva lo spettro di presenza ingombrante e pericolosa. 

Tra casali, scuole, centri commerciali e sedi istituzionali… le case.

Palazzine residenziali, casette di borgata, complessi di case popolari, villette, palazzi da ceto medio. Attraversi quasi tutto, in poco spazio, tranne i palazzoni. Non ci sono i grattacieli, qui.  

Street art




Io pensavo che era illegale” dice Giovanni mentre mi fermo a fotografare. 
Certe volte si, altre no”. Rispondo io, spiegando. 
E lui:  “Strano. Allora dipende dal proprietario del muro? 
Non da cosa ci disegni e perché vuoi disegnare?”.



Mercoledì. 

Ciò che c’è scritto sui muri è sempre stato interessante. Muri puliti, popoli muti. Si diceva un tempo. Ma quando e come questo è diventato street art? Chi può legittimarla come tale? A che prezzo? 

L’impressione è che sia avvenuto più di un passaggio, dal graffito come forma di appaesamento, alla street art come emulazione e adescamento. Dalle tag al writing, è anche il passaggio da espressione a comunicazione? 

E poi, un dialogo attraverso i muri, asincrono e non finalizzato, oggi spopola perché in fondo assomiglia al dialogo social tramite bacheche? E quanto entrambi influiscono sulla nostra (in)capacità di parlarci e di imbastire un discorso collettivo?

Sul lato di un rettangolo


Martedi. 

Quartiere e città tendono a diventare i poli di un'implicita opposizione: 
il primo come principale fonte di supporto emozionale degli individui urbanizzati,
la seconda come mondo in qualche modo ostile, 
caratterizzato da disgregazione, individualismo e atomizzazione.

Al contempo comunità e quartiere diventano una sorta di gemelli siamesi, 
il cui vincolo di unione è tale da non necessitare di essere esplicitato: 
parlare di comunità, in ambiente urbano, significa guardare alla città dal livello del quartiere. 

Ma, una premessa è ancora necessaria: Il quartiere non è la comunità.

Barbara Borlini


Centocelle (quartiere XIX di Roma) in fondo è un rettangolo. Ed io abito su uno dei lati. La mia vita sociale attraversa continuamente la linea di confine, ma questo è normale. E poi anche i confini si muovono, non solo le persone.  

Che sia un quartiere, già dice qualcosa. Roma ha un centro, diviso in rioni, e una periferia, divisa in quartieri. O quanto meno, nel 1929, i quartieri erano la suddivisione della periferia, degli spazi di nuova urbanizzazione. Oltre ciò che allora era periferia, c'è il resto. Che sono i suburbi e le zone. Cioè (in ordine inverso) la parte agricola. E ciò che la collega alla città. 

Roma è un cerchio, ma solo se si tiene come confine il Grande Raccordo Anulare.

Una settimana di flanerie a Centocelle



Lunedì. 


Le prolisse passeggiate mi ispirano mille pensieri fruttuosi.
Mentre rinchiuso in casa avizzirei e inaridirei miseramente. 
L’andare a spasso non è per me solo salutare, ma anche profittevole, 
non è solo bello, ma anche utile.
Una passeggiata mi stimola professionalmente, 
ma al contempo mi procura anche uno svago personale. 
Mi consola, mi allieta e ristora. Mi dà godimento. 
Ma ha anche il vantaggio di spronarmi a nuove creazioni. 
Mi offre occasioni concrete, più o meno significative, 
che tornato a casa posso elaborare con impegno.

Robert Walser – La passeggiata

Fine luglio.  I figli che partono per le vacanze di branco lasciano in dote tempo libero e il bisogno di riformulare il quotidiano, per evitare che la preoccupazione si prenda troppo spazio e perché odio gli sprechi di opportunità. Il lavoro, nelle sue riformulazioni flessibili, in questo periodo non necessita né tempo integrale, nè presenza fisica in un dove. E quello stesso lavoro stimola all’idea di esplorazione. E di movimento. 

Da qui nasce l’#apiedi 2018. 

Flanerie a Centocelle. Ossia, a piedi, senza meta. In città. Più precisamente, nel quartiere in cui, ormai da oltre 10 anni, abito. Un’esplorazione dell’ovvio, del quotidiano. Un walk about. Un divertissment. E al tempo stesso un’urgenza, un bisogno, una necessità.  Comprendere la città e la sua essenza, in un momento in cui sembra di vederla sprofondare. 

Eppure, è un certezza, c’è qualcosa che non vediamo… 

Sette appunti, per sette giorni. Solo un inizio… 


L'inizio di #apiedi, nel 2016, è qui 

Le 15 cose (ovvie) che ho (re)imparato andando a piedi sono qui

Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...