Abitare lo spazio periferico è una sfida appassionante per la società civile


Abitare lo spazio periferico è una sfida appassionante per la società civile. Faccio una breve premessa e poi articolo in 3 punti. Ringrazio Danilo Catania che ha preparato i materiali che hanno istruito ciò su cui io reagisco e a cui cerco di aggiungere qualcosa. 

Innanzitutto specifico da che punto di vista parlo. Dove mi colloco per ragionare. Di mestiere io insegno alla gente a trovare competenze per governare le grandi aree metropolitane. Sono pagato per insegnare le tecniche e i processi di governo. Oggi non parlo di questo, non mi colloco da questo punto di vista. Non parleremo di governo dei territori.

Un altro pezzo del mio mestiere è cercare di capire meglio cosa non va e come si potrebbe fare andare meglio le politiche di sviluppo economico produttivo delle aree metropolitane. Oggi non parlerò di questo. Non tratteremo di politiche e di forme e tecniche di governo.

Cercherò di parlare di ciò che attiene alla attualità delle Acli. Il mio mandato è capire se, negli scenari delle periferie delle città piccole e medie e grandi, le Acli hanno una loro attualità. Io parlo oggi facendo ciò che non bisognerebbe fare. Non dirò cose concrete. Non userò la forma narrativa. Farò una lista di cose che mi sembrano importanti.

Fatta questa premessa, vengo ai 3 punti: L’inquadramento di contesto. La definizione di periferie. Gli elementi di metodo per fare inchiesta sociale nelle periferie.

1. Inquadramento di contesto
C’è una questione di contesto che non è urbana. Non è nemmeno tanto italiana. Si declina in modo diverso nei territori. Se guardiamo a cosa la società civile fa nei territori, specie in quelli in difficoltà, vediamo che ci sono 3 cose importanti: solidarietà, politica, innovazione. Si possono chiamare in molti modi: protezione, mutualismo, dare una mano... rappresentare, governare, cercare soluzioni… fare le cose in modo diverso, tenere conto di come cambia la società... Comunque sono tre cose che si triangolano quando si fanno iniziative nel territorio. Il contesto in cui viviamo è un contesto in cui queste 3 cose fanno molta fatica a triangolarsi. Abbiamo realtà che fanno bene, che cercano di rappresentare, ma sono tradizionali. Abbiamo realtà che sono molto solidali e cercano di usare le nuove tecnologie, di innovare ma non salgono di scala, non fanno rappresentanza. Abbiamo realtà che fanno bene innovazione, riescono a fare lobby, ma se ne fregano della solidarietà. Magari c’è qualcuno che riesce a triangolare tutte e tre le dimensioni, a volte. Ma la grandissima parte delle organizzazioni ha il problema di non riuscire a triangolare questi 3 temi. Se tiene su una dimensione, si perde sull’altra. Se enfatizza l'innovazione, diventa egoista e finisce per proteggere poteri forti. E viceversa…In questo contesto, il terzo settore non è mai stato così tanto lontano e così in difficoltà con la politica, come ora. La difficoltà è iniziata a destra e poi si è espansa a tutti. Dappertutto in Europa. In questo quadro, progressivamente, il terzo settore, nelle sue espressioni un po’ bigotte, ha avuto per primo difficoltà con la politica più di destra, poi anche quello attento ha avuto progressivamente difficoltà ad avvicinarsi a partiti politici di sinistra… 


Questo è il quadro da richiamare, per aprire qualsiasi tipo di riflessione sull’inchiesta sociale. La maggior parte delle organizzazioni fa fatica a collocarsi al centro di questa triangolazione. La maggior parte si specializza su un paio di dimensioni. Tendenzialmente, indipendentemente dalle difficoltà e dai limiti delle organizzazioni, il rapporto con la politica si è sfibrato perché la politica non considera importanti questo tipo di iniziative. Non considera importanti le iniziative che sono il cuore dell’azione di organizzazioni come le Acli. 

In questa situazione c’è un altro punto di contesto. Lo inquadro con una presa di posizione molto chiara: c’è qualcuno che paga un costo molto forte della incapacità delle organizzazioni di rappresentare gli interessi degli italiani. Chi paga il costo più forte sono i bambini. In seconda misura sono chi i bambini li ha e sono i giovani. In terza misura sono le donne, soprattutto se immigrate e a basso livello di istruzione. Siamo già in una società con una rottura generazionale. Non ha più senso usare espressioni tipo “si rischia di”. Siamo in una società in cui è già successo. Individualismo in maniera marcata. Irrilevanza. Disuguaglianza. E’ già successo. Il declino demografico evidente è già successo e si è già consolidato. La rottura generazionale sta nel fatto che, oggi,  più si è giovani, più si rischia di avere una vita difficile o infelice. Più si è giovani, meno si ricevono risorse dedicate e strutturali dal contesto italiano. E’ un punto forte, presente anche in paesi che cercano di redistribuire un po’ di più di noi verso le nuove generazioni. La rottura generazionale è il contesto in cui articoliamo la riflessione urbana. 

La rottura generazionale interroga oggi anche la Chiesa. Per la prima volta la Chiesa convoca tutti i vescovi per dire: non ce la facciamo. Non abbiamo più linguaggio e lo stile pastorale capace di avvicinare una proposta di evangelizzazione verso i giovani. La rottura è troppo forte. Solitamente i sinodi sono su temi, su oggetti. I sinodi non sono mai su classi di persone. Non sono mai su classi generazionali. Oggi c’è il Sinodo sui giovani. La Chiesa dice che oggi non è più possibile fare un ragionamento senza mettere al vertice del ragionamento la questione generazionale. Sarebbe un ragionamento falso. Non permetterebbe di capire cosa si muove dentro le tensioni più radicate della società. Per riprendere Pio Parisi, qui si va alla capacità dei Piccoli e dei Poveri di ispirare il nostro agire. Oggi il contesto è tale che essere piccoli è essere poveri. La diseguaglianza è così marcata in questo paese che non si può più sottovalutare. 

2. Le periferie

Dentro questo contesto generale. Come definire le periferie? In questo contesto più grande, cosa ha  senso per l’attualità delle Acli? Innanzitutto la realtà urbana, soprattutto in Europa, è una realtà che va sempre di più verso polarizzazioni tra territori di successo e territori affaticati. Questo non è una polarizzazione tra centro e periferia in area urbana. È una polarizzazione tra aree urbane. Questa è la dinamica più importante. La differenza tra l'area di Milano (l'insieme di persone che gravitano su Milano) e Palermo, è molto più marcata della differenza tra quartieri benestanti e quartieri in difficoltà della stessa Milano. La questione periferie è importante, ma non così importante quanto la grande questione urbana europea, che è messa in evidenza da tanti. E che dice che il modello sociale europeo, basato su città medie, tiene. Ma con strutture urbane che saltano in avanti (aree metropolitane) e strutture urbane che fanno fatica e restano impoverite. Perché le risorse si trasferiscono da territori più poveri a territori più ricchi. 

Tendenzialmente gli attori della solidarietà (anche se meno di altri) hanno dismesso qualsiasi quadro concettuale che guardi alle redistribuzioni verso i territori arretrati. Il quadro concettuale di riferimento oggi vuole premiare chi ha più potenzialità. Questo è molto chiaro in tutto, in particolare nelle politiche economiche. A livello nazionale è meno chiaro perchè è più compensato dalla UE che, checchè se ne dica, è un po’ meno attenta a redistribuire verso i campioni e un po’ più attenta ai territori in difficoltà. Ma questo è vero anche nel modo in cui si organizzano le strutture della solidarietà. Si gioca a dire, su ogni scala: partiamo dai territori che sono comunque ben messi, per cui se facciamo questo, il lavoro può avere un buon ritorno, con effetti moltiplicativi sugli altri. Questo ha senso. L’ho detto anche io. Per tanto tempo. Ma nel momento in cui questo diventa un quadro di riferimento di tutti, compreso il mondo della solidarietà, finisce che non ci sono più interventi verso le back society, ci sono solo per quelli forward looking, solo quelli che possono fare meglio ricevono.
Questo vuol dire che le città in Italia che attirano risorse vanno meglio di quelle che restano indietro, ma che tutte non vanno tanto bene. In Italia, anche se si vuole prendere le configurazioni urbane più avanzate, non abbiamo territori di grandissimo successo e non abbiamo grandissima capacità redistributiva. Ne abbiamo un po' più che nei paesi poveri. Ma non abbastanza.

Comunque, i territori urbani, più che i territori rurali, sono territori di opportunità. I territori metropolitani sono territori di maggiori opportunità rispetto ai territori meno metropolitani. Quindi i territori urbani attirano persone. Attirano popolazione ricca, popolazione che ha studiato. Ma attirano anche gente povera. Persone che si spostano per andare a cercare opportunità. Attirano tutti. Perché questi territori hanno un po’ più successo rispetto ad altri, sono territori un po' più di opportunità rispetto agli altri. 

Il problema delle periferie si pone come si è sempre posto, si pone come un problema di concentrazione di gruppi troppo omogenei. Problema di omofilia (termine bruttissimo), del fatto che la gente cerca gli uguali. Questo vuol dire che il ceto medio alto cerca di espellere i poveri dal posto in cui vive. Questo significa che, sul piano spaziale, sul piano della distribuzione delle persone, si creano aree di opportunità molto diseguali. Se tutti i ricchi vivono assieme, ne traggono un gran beneficio. Se tutto il ceto medio vive assieme non ha grandissimi problemi. Se tutti quelli in difficoltà vivono assieme si producono effetti aggiuntivi, che non sono direttamente legati al fatto di essere individualmente poveri o individualmente poco istruiti. Si produce un effetto quartiere, che moltiplica lo svantaggio individuale. 

Il problema di territori che tornano ad attirare persone è un problema tradizionale delle città. Non solo qui, nel mondo. In Italia abbiamo alcune cose abnormi, come può essere il serpentone di Corviale qui dietro, o alcuni pezzettini a Napoli, ma è un fenomeno che finora l'Italia non ha mai visto in maniera così massiccia, come invece potrebbe essere nella fase di ripresa forte di migrazione nazionale e internazionale. Il problema non sono le singole persone. Il problema è  l’omogeneità delle persone che vivono assieme.

Su questo si è sempre fatta una grande retorica, soprattutto a sinistra, che ha portato ad effetti disastrosi che possono diventare ancora peggiori. La retorica più forte è che l'importante è che i poveri abbiano un tetto, che il resto si può gestire, che i poveri tra loro, messi assieme, si capiscono e sviluppano solidarietà. Che i poveri, messi assieme, sono più capaci di difendersi e di proteggersi. Di sfondo c'è l'idea che i poveri tra poveri stanno meglio (e sotteso c’è il pensiero che, messi assieme, i poveri diventano una base elettorale coesa della sinistra). Questa è stata una matrice di pensiero politico. Oggi alla politica sembra che non interessi più avere una base sociale popolare. Oggi questo però torna nei linguaggi populisti. C’è chi dice che in ogni caso le forme di coabitazioni tra differenti non funzionano, perché se fai vivere assieme ricchi e poveri comunque la gente non si sposa e non nascono amicizie. Ma pensare all’inutilità di periferie miste è una stupidaggine. L’obiettivo non è favorivere l’amicizia e i matrimoni misti. L'obiettivo è evitare che, data la presenza solo di persone marginali, alcuni contesti non vengano governati. Meno pattuglie di polizia, meno beni collettivi, meno uffici postali, meno scuole...  

Oggi ci sono due quadri intellettuali per interpretare le periferie. Sono quadri ideologici e funzionano molto, nei film, in tv, fanno cultura: miserabilissimo e populismo. Secondo il miserabilismo le periferie (cioè i posti svantaggiati, in aree avvantaggiate), sono posti in cui si sta malissimo, in cui la gente è tutta drogata, tutti con le dipendenze da macchinette, tutti violenti… La periferia è il luogo delle distopie dei film di fantascienza. Secondo il populismo nei posti svantaggiati c’è il popolo. Il popolo ce la fa. Trova soluzioni. Si organizza. Si aiuta. Ha in mente cosa fare. Conosce i suoi bisogni. Deve solo avere più potere, perché il popolo in realtà da solo si saprebbe gestire. Queste sono le due grandi ideologie con cui oggi si guarda alle periferie. Sono quadri coerenti ed efficaci a semplificare la realtà. Le periferie sono luoghi in cui non possiamo negare le difficoltà e gli svantaggi. Non possiamo negare neppure la capacità di azione, mutualistico e solidale. Ma non possiamo parlare solo di questo. In periferia ci sono gli sfigati. In periferia ci sono i supereroi. Sono semplificazioni che non funzionano. Non ci aiuta nemmeno combinare le due presenze. In periferia c'è un po' di questo e un po’ di quello. Il problema è avere un’idea di cosa potrebbe aiutare a fare comunità nei quartieri e nelle aree svantaggiate. E non sono le capacità individuali.


Ci sono 4-5 cose che sono indispensabili per lo sviluppo di opportunità di una zona svantaggiata. Possono comporsi in modalità differenti, ma serve che ci siano tutte: Associazionismo, Beni collettivi, Istruzione, Produzione.  Nei territori, nei microcontesti, un po’ di produzione, non solo di servizi, serve, per dare opportunità. 

Che cosa implica questo ragionamento, in termini di questione di metodo di azione sociale? Che per agire in periferia qualsiasi cosa va bene? No, per agire in periferia è molto rischioso pensare che qualsiasi cosa vada bene. Per le periferie non basta una economia dei servizi. I luoghi periferici oggi non ripartono se non vediamo tracce serie di protagonismo dei ceti popolari. Per tanti anni l’associazionismo ha ragionato in termini di cosa. Quali progetti, quali attività. L’associazionismo ha sempre rifiutato una centratura su chi. Considerando la logica del target una logica di marketing. In realtà l'azione sociale in periferia non può essere un’azione sociale che gioca su vicinanza a noi. 

Do un po’ più di vicinanza ai già vicini. Do un po’ più di potere ai già un pochino potenti. Questo non permette l'emancipazione di un territorio in difficoltà. In un'area in difficoltà si tratta di andare a prendere chi sta nel quadrante sotto ed offrire opportunità per spostarsi nel quadrante sopra. Intercettare le persone lontane e senza potere. Di solito si usa un modello a cipolla. Si parte noi. E quindi da chi è più vicino a noi. Il problema è che così si fa poco empowerment. E si va poco a cercare i realmente potenti da un lato e i ceti in difficoltà dall'altro. Il punto è passare dal ragionare sul cosa fare al ragionare sul chi fà. Raccogliere bella gente che ci sta e dedicarsi solidaristicamente e innovativamente a fare un po’ di cose belle è ciò che ho sempre fatto, nella mia vita. Guidato dal cosa, non dalla riflessione sistematica sul chi. Questo funziona nei territori ricchi. Se si vuole andare nei quartieri del ceto medio, funziona un po’ si un po’ no. Se si vuole andare nei quartieri svantaggiati questo modello non funziona. Nelle periferie il cosa conta molto meno del chi. 

3. L’inchiesta sociale
Cosa è l’inchiesta sociale? L'inchiesta sociale ha una tradizione di persone, soprattutto di mondo cattolico, ma anche di mondo operaio laico. Persone che negli anni 50 si interrogavano sul perchè non capivano ciò che accadeva. Si sentivano inadeguati. Non riuscivano comprendere cosa stava accadendo alla società. Anche se erano molto più bravi di noi oggi. Riuscivano a stare anche molto più bassi, riuscivano a stare fisicamente in quartieri e contesti molto poveri. Ma sentivano di non riuscire a capire. 

Per esempio, se leggete l'inchiesta a Palermo di Danilo Dolci, lui era sgomento i gruppi operai non se lo filavano e facevano le peggio cose, controllate dai peggio poteri. Era sgomento e si sentiva inadeguato. E allora cosa fa per capire? Va a chiedere le storie di vita, uno ad uno. Si mette ad ascoltare. Recentemente abbiamo fatto un lavoro. Abbiamo riletto 60 inchieste sociali fatte tra il 65 e il 72. La logica di fondo era la logica militante di persone che non capivano. Non persone che volevano astrattamente conoscere. Persone che volevano profondamente comprendere. Non persone che dicessero: "Faccio una inchiesta per cercare un modo di fare questa cosa con loro”. Il punto di partenza non era il fare. Il punto di partenza era: io non capisco, voglio capire. La molla che li muoveva era l’esigenza, drammatica, di ricostruire il senso. Ricostruire il modo in cui le persone vivono la vita quotidiana, nei posti che ci sfuggono. Non una ricerca finalizzata al fare. Non una valutazione della fattibilità di una proposta.  Non un’indagine di mercato. Ascoltare, capire, comprendere. 

Come si fa, oggi, a fare inchiesta sociale, a fare ricerca azione? 

Tenere a mente i presupposti di contesto

Innanzitutto, certamente non si può essere neutri. Non si può fare sconti sulla dimensione generazionale. Se uno spera di poter iniziare con i gruppi più protetti e tutelati, ascoltando i loro problemi, per arrivare agli altri, deve sapere che quei gruppi non gli daranno mai uno sguardo sugli altri. Non è parlando con persone che hanno forme di tutela, che si capisce quale è il vissuto dei giovani nelle periferie. Si può partire da lì, ma per rimanere lì. Non c’è traslazione. La rottura è avvenuta. Non è parlando con una donna che ha un lavoro, di 50 anni, che si capisce la popolazione delle donne di 25 anni. Potete capire solo se entrate in un dialogo. In ascolto. Per storie di vita. 

Perché si fa

Una inchiesta sociale non si fa per conoscere astrattamente. Si fa per una urgenza. Non per un buon progetto. Inchiesta sociale vuol dire che c’è un contesto in cui siamo, in cui ci sentiamo persi. Per cui pensiamo che valga la pena andare a parlare con la gente e farsi raccontare la vita. Si può capire il modo in cui le persone si rappresentano, si riesce ad ascoltare davvero, solo si parte dal presupposto che non si capisce. Che quell'ascolto è per noi prezioso per capire. Se non si cerca solo conferma a ciò che già pensiamo. Non si fa inchiesta sociale perché si è bravi, perchè si è adeguati. L’inchiesta sociale diventa il punto di partenza di successive progettazioni solo se si riconosce di essere profondamente inadeguati. Si è inadeguati perché ciò che si vede risulta incomprensibile, rispetto ai  concetti conosciuti e alle esperienze precedenti. 

Dove si fa

La questione non è cercare un territorio particolarmente disagiato. Non è cercare il luogo in cui nessuno va più in chiesa o al circolo. La questione è capire il territorio su cui ci riteniamo inadeguati, perché quella consapevolezza di non capire è potente alleata per l'attivazione di un processo collettivo. Non “dove c’è più bisogno”. Il dove si sceglie in base al “chi”. Chi non si capisce, chi si vuole scoprire. Si può fare con persone anche molto povere, se si ascoltano realmente. Se dovete approcciarvi con ideologie miserabiliste, non fatelo, sprecate tempo. L'esito di quell'ascolto c'è già, cercate su internet e fate copia incolla di ciò che trovate, non serve altro, se volete solo confermare ciò che avete in testa. 

Cosa indagare

L’inchiesta sociale parte dalla vita quotidiana. Le paure, il come la gente vive nel quartiere. Con 3 concetti fondamentali da esplorare: le relazioni, la forme organizzate in cui si fa qualcosa assieme, i tempi di vita. Andare ad ascoltare su queste dimensioni, tramite storie, permette di capire le persone nelle loro paure e nelle loro responsabilità più profonde. 


Quale intervento in periferia 

Fare ricerca azione, fare inchiesta sociale non può essere pensare bene, progettando con qualche riunione, una iniziativa con sociologi, intellettuali, per un piano di governo dei territori sfigati. Non può essere questo.  Cosa fare in periferia, è semplice: fare le Acli. Cioè pensare a come, nei territori svantaggiati, il lavoro, lo stare assieme hanno uno spazio.  Vedere come questo interroga lo sviluppo della persone in quella porzione di territorio. Vuol dire creare opportunità di istruzione professionale. E poi creare servizi per la protezione che siano anche servizi che imparano qualcosa dal populismo. Servizi per la protezione che siano anche un po’ servizi per la resilienza. Servizi che siano modi per dar qualche strumento e per avere un po’ più di potere, non solo essere protetti. Prendersi cura dei beni collettivi. Non solo le strade, la piscina, la posta... Anche beni collettivi specifici per la solidarietà e per la socialità. In periferia la socialità non spontanea. Le social street. Sono una figata straordinaria. Ma sono tutte in quartieri medi alti. E gli attivisti sono tutti persone con profilo più alto rispetto al quartiere. In periferia serve capire chi non capiamo e poi con quelli fare le Acli. La convivialità, la protezione, il lavoro. Con priorità sul chi, prima che sul cosa.

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