Intervento di Ivo Lizzola in apertura della scuola di formazione Acli Livio Labor
Non oserò fare una lezione su Labor formatore. Io aprirò
alcune strade di riflessione a partire da lui. Soprattutto dopo aver sentito
questa bellissima testimonianza ricordo. Io sono entrato nelle Acli nel 72.
Nelle Acli della grande trasformazione che Labor aveva introdotto perchè pensavo di
poter coltivare l’idea di diventare un cristiano leale, giusto, coerente.
Le donne e gli uomini grandi, nella loro ferialità normale, e i formatori, sono
persone che sanno consegnare dei lasciti. E sanno anche lasciare, andare oltre.
E quindi, quando se ne vanno, se ne vanno e non se ne vanno. Perché il loro
richiamo alla responsabilità resta. Perché qui se si intitola una scuola….
La condizione è essere riusciti a coltivare una
responsabilità personale nell’incontro con gli altri, specie i più deboli, da
poter condurre la propria azione di accompagnamento, formativa, di tutela, con
una generosità che è anche libertà. Io vedevo le foto di Labor e ricordo quel
sorriso e quella forza della comunicazione. Era una espressione quasi fisica
della generosità che lo caratterizzava. Dare di sé tutto. Essere generosi. Dare
tutto di sé. Dentro ciò che in quel momento si sta vivendo con altri. Quel
momento di incontro con gli altri, non è solo un momento per costruire il
nuovo. Ma è anche il luogo, preziosissimo, in cui, stando molto attenti, si
potrebbe riuscire a cogliere il lavorio di Dio nelle persone. Accogliere il
sussulto di verità che ci chiama ad essere, pur nella contraddizione di ogni
incontro. La passione nell’agire, altrettanto forte dell’attenzione
all’incontro. L’attenzione a chi si sta
diventando, mentre ci si incontra, in modo impegnativo. E’ una attività forte.
Richiede forte recettività.
Livio Labor ha rappresentato una stagione di inizio. E anche
una stagione di compimento nella vita delle Acli. Lui stesso ha vissuto la
capacità di inizio e la capacità di compimento. Spero che i dirigenti delle
Acli abbiano questo carattere, piuttosto insolito, di riuscire a consegnare, a
lasciare. Una forma di responsabilità che fa posto, fa spazio, dà inizio. Ne ho
conosciute di persone così. Molte di queste le ho conosciute in Acli.
Quando Labor diceva
che le Acli sono una grande scuola di formazione popolare non stava pensando ad
un servizio di formazione. Pensava alle Acli in quanto tali. Non è più quel
tempo. Ma una lezione da quel tempo possiamo prenderla. I circoli Acli, i corsi
enaip, a volte si facevano in sedi negoziate, e improvvisate. Le forme
cooperative dei servizi, erano luoghi in cui prendeva forma l’esperienza umana,
quando quella forma era difficile assumerla, da parte di persone che le scelte
di vita le giocavano, rischiando, costruendo faticosamente il proprio percorso.
Il risparmio condiviso con altri. La casa… Le Acli erano il luogo in cui
prendeva forma la vita. Per quelli per cui la vita faticava a prendere forma. Per questo la politica. Per
questo il territorio.
Il territorio è
il luogo in cui ci si doveva attrezzare per sostenere questa presa di forma
della vita. La politica era il luogo
delle decisioni che questo potevano impedire o aiutare. Le presenze
territoriali costruivano territorio. Istituivano luoghi abitabili di
riconoscimento. In cui i problemi potevano essere depositati e riletti con
altri. I problemi incontravano le
competenze. E si costruivano i percorsi di elaborazione. Erano veri e propri
ruoli di riflessività sociale. La formazione riguardava la forma possibile per
quelle vite in difficoltà e la forma possibile per quelle comunità. Prendevano
forma le vite. Prendevano forma le comunità. Il territorio diventava il mio
territorio. Prendeva la forma di quelle prossimità, di quelle vicinanze. Di
quella organizzazione un po’ imprevista in cui provavamo a dare risposta a
problemi condivisi. Prendeva forma la vita fragile, la vita comune.
La politica aveva senso. Perché era connessa a queste
progettualità concrete. Quando non lo era, poteva essere richiamata a questo.
Si aprivano i conflitti.
Di sicuro Livio Labor non aveva problemi di franchezza.
Eppure non c’era mai pura denuncia o rabbia risentita nel suo parlare. Anche in
quei tempi era difficile confrontarsi con la differenza politica. Non era
facile. Ma lui non aveva bisogno di denigrare per sottolineare le differenze di
prospettive. Bastava sottolineare la differenze di prospettiva e le differenze
di conseguenze. E’ interessante riprendere questo. E impegnativo.
Perché, per esempio, vuol dire che chi fa il corso di animatore sociale non può pensare di trovare un luogo
in cui esercitare competenza professionale per dare forma, da solo, a trame di
convivenza. Non può pensare di imparare a come dare risposta ai bisogni. Perché
non si fa comunità così. Dovrà pensare di venire qui, periodicamente, per far
un’operazione molto più complessa, oggi. Che è provare a vedere se quella vita
che molte donne e uomini vedono tutta disegnata in frammenti è possibile
trovare la forza e la fiducia, con altri, di ridisegnarla dentro trame di condivisione
e di speranza. Speranza che diventa concreta nell’impegno concreto che ci
mettiamo nel costruirla. E’ un’altra cosa. Chi lavora per fare questo, incontra
la fragilità e la sua stessa fragilità. Incontra l’incertezza della capacità di
tenuta del patto di condivisione.
Incontra tante esistenze un po’ affaticate e in carestia di futuro.
Eppure dovrà affiancarle, dovrà lavorare con loro perché riescano a
rappresentarsi diversamente da così. Dentro sperimentazioni concrete, sentendo
la fragilità del farlo. L’importanza del farlo, del sostenerlo, del rischiarlo.
Senza sapere che forma prenderà questa convivialità. Attendendola. Non nel senso
di aspettarla. Come gli attendenti. Curandola. E poi lasciandola in mano a chi
avrà scoperto, in questo, il senso del suo agire. Fare l’animatore vuol dire elaborare una
grande capacità di interazione, di chiamata ad essere, di provocazione, in accompagnamento.
Una grande capacità di farsi da parte per andare a coltivare altrove. Di volta
in volta, continuamente.
E chi farà invece
organizzazione dovrà stare molto attento a inventare una esperienza in cui
le persone possano entrare e trovare, per una stagione breve o lunga, occasione
per essere aiutati a dare forma alla propria vita. Una organizzazione che serve
le vite. Che è diffusa per meglio
ascoltare. Che è organizzazione perché aiuta la sintesi di questi ascolti.
Altrimenti è frammentazione. La prestazione pura e semplice può essere fatta
benissimo, in estraneità reciproca. Ma se fai solo prestazioni, l’ha detto
benissimo mons. Galantino, di soli servizi si muore. Anzi, di soli servizi si è
già morti. Perchè si è in una relazione in cui si incontra il bisogno, non la
persona. Sei fai questo, sei solo una delle tante agenzie che fa questo. Invece
puoi fare la prestazione come scusa per incontrare. E fai prestazioni e servizi
riferiti a quelli che vuoi incontrare. Prestazioni e servizi riferiti ai bisogni
dei più deboli, dei più fragili, perché vuoi incontrare loro. Fai i servizi per
incontrare. Certo, i servizi devono poter consistere, hanno la loro logica
interna. Ma il servizio non è il fine, è lo strumento. Come gli insegnanti che
riducono la scuola alla didattica. I servizi sono la scusa per fare una cosa
che oggi è rarissima: incontrare.
Walter Benjamin scrive: mi
pare di notare, nella nostra convivenza, una certa rarità di esperienze di
soglia. E usa questo termine. Cosa è un’esperienza di soglia? Una
esperienza di incontro. Ma anche di passaggio. L’esperienza di soglia è un
luogo non scontato. In cui ci si espone. Qualcuno bussa. Qualcuno esce. Due
cose difficili. Ci chiede di esporsi, di fidarsi. Chi va sulla soglia è un uomo
e una donna di fede. Perché prova a pensare che l’altro possa non essere solo
una minaccia. Perché prova a pensare che può rischiare di esporsi. Posso
aprire, non so se ho qualcosa da darti, non so se saprò fare, ma mi
espongo. Di esperienze di soglia c’è
grandissimo bisogno. Tantissime persone avrebbero bisogno di soglie in cui
incontrare gli altri. Una esperienza di soglia è un tempo, un luogo in cui puoi
incontrare e depositare il tuo vissuto. Essere aiutato a dare parola. E su
quella soglia, che sospende il dove vieni e dove vai, ti è data per un tratto
l’occasione di recuperare il dove vieni, di ridisegnarlo grazie ad altri, per
prefigurare un avvio o addirittura un invio. Come i genitori. Poi i figli vanno
da altre parti. Dove scelgono loro. Ma con il senso dell’invio. Il senso
dell’invio è in quelle qualità. Non nella cosa specifica che vai a fare. Molte
persone hanno bisogno di sentirsi inviate. Dove sono state accompagnate e hanno
ricapitolato qualcosa. Hanno visto pezzi di futuro possibile. E vi si avviano.
C’è stato chi è stato sulla soglia con loro.
Il futuro abita dentro di noi prima di avvenire. Il futuro è
anzitutto promessa. Scriveva Simone Weil. È speranza, non retorica, è una pratica
che coltivi dentro, perché altri con te si mettono lì a pensare concretamente
che forma può prendere la tua vita quotidiana. La tua necessità di
riprogrammare la vita, perché hai un nuovo carico di cura, perché hai perso il
lavoro, perché le tue competenze non c’entrano più. Lì è importante che ci sia
una soglia. Provocare le politiche. Come può fare una organizzazione che apre
un progetto territoriale e convoca alleanze attorno a questo.
Fare organizzazione non è qualcosa di estraneo dal fare
testimonianza. O da interpretazioni di ruolo, libere. E chi verrà a fare il corso
per dirigenti in una scuola intitolata a
Livio Labor, che ha rischiato il consenso, che non ha percorso percorsi sicuri
per mantenersi in ruoli di potere, che ha sentito la responsabilità di aprire...
Ha una bella responsabilità! Un
dirigente è colui che pulisce il futuro per altri. Non presidia il presente e il futuro per sé e per i propri. Pulire il
futuro è un’espressione che usa Agnese Moro, una espressione che dedica al
padre negli ultimi mesi di vita (Agnese Moro non aveva le stesse posizioni
politiche del padre. Era una tipa bella vivace). Lei scrive: la preoccupazione
di mio papà era quella di pulire il futuro per i giovani e le giovani. La
politica deve preoccuparsi, come i genitori (interessante il parallelo tra il politico
e il genitore in Jonas) nelle grandi transizioni, di manifestare la stessa
responsabilità dei padri e delle madri. Pulire il futuro dalle scorie del
passato. Pregiudizi, pesi di accordi troppo legati al presente che paralizzano
il futuro. Debiti… La responsabilità del politico è dare avvio alle cose. Sapendo che non le
porterai avanti tu. Dare avvio alle cose. Chi viene in una scuola intitolata a
Livio Labor dovrà imparare a fare il dirigente così. Non è semplice. Mi viene in mente un’altra figura. Vincenzo Bonandrini. Il
tratto di gratuità era uguale. Vincenzo, come Livio, ma potremmo citarne tanti,
anche Giovanni. Sono, come tantissimi
dirigenti aclisti, persone comunitarie. Difficile parlare di loro senza parlare
di tanti di comunità di progetti condivisi. Non puoi parlare della persona
senza parlare di tanti. Non puoi parlare di progetti se non come tessitura di
persone e responsabilità.
C’è bisogno che le Acli
vivano una rigenerazione. Anni 90. La rigenerazione. Non rifondazione. I fondamenti ci sono. Non c’entra. Tornare a capire dove si nasce. Dove si deve
tornare a nascere. A quali fedeltà dobbiamo tornare a nascere. Altrimenti le organizzazioni
pensano di nascere da sé stesse. Quando nascono da se stesse sono già finite.
Magari vanno avanti per 20 anni. Ma sono già morte. Gran parte del sindacato rischia.
Una parte è già morta. Una parte no, perché è collegata a luoghi che possono rigenerare.
Le Acli hanno bisogno di rigenerazione. Di coltivare il nascente. Continuano a
nascere dove le vite incontrano la cura, il senso, la dedizione. L’attenzione a
costruire a partire dalla fragilità, ferialmente.
Noi non staremmo vivendo la stagione di oggi e degli ultimi
anni e le nostre vite non avrebbero resistito degnamente in umanità senza il
tessuto fine che ha attraversato tutte le nostre famiglie. Reti tra famiglie,
rapporti di vicinato, piccole cose che hanno reso tollerabili profonde crisi.
Crisi di lavoro, di impossibilità di risparmio, di impossibilità di dare avvio
per i figli, nuovi carichi di cura che non potevano essere appoggiati... La
tenuta delle relazioni e dei progetti famigliari ha permesso questo. Più che le
politiche. Le reti famigliari hanno permesso di reggere dentro questi anni
faticosissimi, che sono anche oggi. Rapporti tra nonni e nipoti. Strategie famigliari
faticosissime da cucire. Tessuto fine. A
volte le organizzazioni ci sono in questi intrecci, molte volte no. Poi ti
domandi perché non viene. Era troppo affannato sulle sue questioni, non riusciva
a prendere respiro. Senza respiro magari resisti, ma in un frammento tutto di
relazioni intime, quindi fragili, e soffocanti.
Non è vero che la
nostra convivenza è abitata da solidali e da rancorosi. E’ abitata da normali
che vivono, assieme, un po’ di rancore e un po’ di solidarietà, in strategie di
resistenza delle loro vite. E noi facciamo la predica del rancore a persone
che è già bello che restistano, in alcuni elementi della propria vita, con
elementi di valore. Non si sta bene a vedere gli altri come minaccia continua.
I miei valligiani, 60% lega, non stanno bene a pensare quel che pensano degli
altri, stano meglio quando a scuola e incontrano le mamme e i papà i cui figli
nati in Italia, giocano a calcio e
parlano di figli. In quel momento si dimenticano che sono immigrati. Perchè
sono presi dalla concretezza della soluzione dei problemi e della voglia di
rendere ricca l’esperienza del mondo dei propri figli. Poi sulla scena pubblica
si recitano le retoriche. Difensive, tutto sommato. Le persone stanno bene
così? No, sono affaticate da questa lacerazione.
In questo tempo che stiamo vivendo, dove le certezze di
prima non ci sono più. Non è chiaro cosa è giusto. Metà dei parroci della mia
zona sono molto critici con Mons. Galantino e Papa Francesco. È tempo di esodo.
E nell’esodo vengono fuori i fondi. Delle organizzazioni e delle persone. E nei
fondi c’è dentro tutto. Non separato. Mischiato. C’è il timore dell’altro, ma anche la
passione della scoperta. C’è dentro tutto, tutto quello che si è depositato nel tempo, e non è stato rimosso, riemerge. Gli esodi sono tempi
di contraddizioni forti. Di risentimenti. Certo, puoi costruire il tuo consenso a partire da quel
risentimento. Fai sopire tutto il resto. E ci resti a galla un po', sopra. Ma questo non basta a cambiare la vita di un territorio e di una comunità. Anche nel risentimento, le persone vivono comunque anche altro e si sentono spaccate dentro. E stanno male. C’è
bisogno di composizione. La composizione è nelle persone, nelle biografie. C’è
bisogno di chi coltivi le soglie. Bisogno di ricomporre un respiro unitario. Non solo di fare. Di trovare
la realtà spirituale dei fatti. La vita quotidiana ti obbliga ad essere quello
che puoi essere. Ma puoi anche essere un uomo che va a cercare l’operare di Dio. Ma
hai bisogno di affidarti un poco. Di affidarti al poco. Da soli è difficile. Insieme sarebbe già più facile. Insieme ci si veglia
reciprocamente. Gli aclisti come diffusori di veglia reciproca, nella comunità. Non teoria, con grande senso della realtà. Tra donne e uomini non esemplari.
Quando fai una scelta
politica tu punti sempre su un’idea dell’altro. O punti sulla passività, l'altro dipendente da te, leva sulla sua necessità per costruirci un gioco per te. O punti sulla libertà di spirito, sulla autonomia di
mente e sulla fiducia nel legame. In politica non puoi puntare in mezzo a queste due. Un po' e un po'. La politica evoca
sempre una attitudine umana, un progetto di uomo. La politica è sempre, comunque, formatrice. Quindi assume una responsabilità di formazione.
Un progetto di uomo, ha ragione Labor, è implicito nel modo in cui
tu articoli la tua presenza, in cui rappresenti
un luogo in cui è possibile convergere, dare forma desiderabile, sperare
insieme. In qualche modo tu stesso ti
disegni anche un contesto concreto che poi veglia su di te. O che ti distrae.
Perché sai che non sei e non sarai del tutto all’altezza. Per cui hai bisogno
di progettarti il contesto. E di sostenerlo organizzativamente, il tuo contesto,
perché ti sostenga. Sei richiamato ad una coerenza dal fatto che ti sei creato
un contesto che ti aiuta ad essere al servizio di altri, fragili e deboli. Altri
che senza quello farebbero fatica a dar forma alla loro esigenza. Questo è
proprio delle fasi nascenti e delle fasi di esodo.
È una sfida particolare, quella del presente, perché non ci possiamo confrontare su grandi narrazioni di futuro, in base a
cui distinguerci. Oggi non c’è nessuna ipotesi socialista. Allora c’erano
sostegni possibili. Oggi no. Oggi subito l’ipotesi di mondo deve essere praticata e praticabile, e deve essere creduta praticandola, per renderla sperabile ai più. Come la parte finale della Laudato si,
spiritualità e assunzione di stili di vita coerenti con visione di responsabilità.
L’avete letta la Laudato si? No? Vi do un compito. Prima dell’inizio dei corsi. Leggetela. Fidatevi. Mio figlio, categoria agnostici pensosi, se l’è letta. La metà dei catechisti della
mia parrocchia no. Lui si. Ha detto che l’ha trovato uno dei documenti più
all’altezza dei tempi. E' interessante quel che dice. Lega queste dimensioni. Fidatevi. Ma anche se non vi fidate, leggetevela. E' un compito.
Io non so se Roberto e Erica se ne rendo conto ma aprire una scuola di formazione centrale
per 150 persone vuol dire tirarsi in casa una rogna pazzesca. Portare 150
racconti di vostre realtà. Con la forza della vita vostra e dei racconti che
raccogliete. Qui li indagherete e quindi coltiverete, per forza, un atteggiamento
non solo riflessivo. Da qui tornerete e vedrete in modo diverso quello che a casa potete
fare. Tornerete da rompiscatole anche a casa. Da dove vi hanno mandato, un po’
così, senza pensarci troppo... La formazione funziona così. L’organizzazione non sarà più la stessa. Né qui,
né lì. Inevitabilmente prenderà forma un conflitto di prospettive di futuro e
di modelli di persona e di responsabilità. Nulla resterà come prima. Se resterà tutto come prima e qui sarà solo oliare i meccanismi della pratiche che già si fanno, la scuola
sarà fallita. Tra un anno si vedrà già se è fallito o no. Poi può andare avanti
magari 10 anni. Ma sei già fallito. Ma è difficile che una scuola delle Acli fallisca subito. Perchè io li conosco gli aclisti. Sono rompiscatole e se trovano un posto che gli permette di esserlo... Aprire
una scuola è aprire agli imprevisti. Ma vi vedo, qualcuno lo conosco...
Voi
cambierete lo sguardo. Non perchè qui a scuola vi cambieranno. Si, vi daranno
strumenti. Ma la mediazione tra queste letture che vi proporranno e voi stessi sarà vostra e sarà nei luoghi
concreti. E c’è la forza della vita concreta che spacca tutte le rappresentazioni
false. E’ Levinas. La forza della vita spacca le rappresentazioni false, specie
dove la vita è incerta, soffre e cerca. Oppure dove la vita è abulica.
Nei tempi d’esodo ci vuole tempo. Se no non
ci avrebbero messo 40 anni a fare poche decine di km. Hanno vagato mica male
prima di arrivare. Tutto il tempo per ridire tutto da capo, il giusto e
l’ingiusto. Il passivizzante e l’escludente. Ci hanno messo 40 anni per
rimettere a fuoco, dentro di sé, la promessa di scegliere. Per rivedere,
imparare a rivedere quello che stavano già facendo. Rivedere, guardare, riguardare,
avere riguardo. Scoprire il portato di verità che c’è nella vita che stai incontrando.
Non solo i bisogni, i desideri, gli aneliti. Se fai Patronato non incontri solo
bisogni. Se ci parli assieme, con le persone che vengono al Patronato, non
incontri solo bisogni, incontri preoccupazione, desiderio, memoria,
promessa… è questo che ti serve per fare
associazione!
Poi, se non ne incontri uno solo, se ne incontri 40, vedi nelle loro storie che ci sono
alcuni fili forti condivisi. E magari ti viene in mente il modo per tessere
quei fili. Poi a scuola hai visto come in un altro territorio hanno iniziato a
tessere. E non ti serve per fare uguale. Ti serve per pensare. Le diversificazioni ti servono per
trovare la tua strada. Perché ogni strada è unica. Ma c’è bisogno del luogo ricompositivo.
Non il luogo che annulla le differenze. Le differenze restano differenze. Ma
serve ricomporle, dare loro la possibilità di convivere. Serve immaginazione.
Immaginare. E per immaginare serve guardare. Vedere per tornare ad immaginare. Aiutare
la persone ad immaginare. Riprendere il punto di di vista del desiderio, non
solo quello del bisogno.
E riconsegnando la responsabilità. Non preoccupandoti di
essere utile tu. La preoccupazione di essere utile, se no che ne è di te? E’ pericoloso costruire
risposte per altri volendo essere utile. Perché prendi scorciatoie, perchè menti, e perché ti rendi indispensabile, crei il bisogno.
Diventi disabilitante. I servizi pubblici spesso cadono in questo. Le
assistenti sociali…Come fare invece un servizio non disabilitante? Usare la competenza
che trovi nell’altro. Usare la competenza che vedi nella comunità. Fare il bilancio
delle competenze territoriali, non solo di quelle personali...
Un circolo che fa un progetto delle neo mamme, una sede di
patronato che.... a lecce c’è una associazione di anziani che si preoccupa di
solitudine giovanile... Si può fare di ogni... Sono anziani emigrati tornati, con competenze, si vivono come risorsa e sono preoccupati per la solitudine dei giovani, non hanno messo in piedi un servizio per anziani, hanno fatto un accompagnamento dei giovani,
un centro di supporto e consulenza
per star up giovanili, nel salento…. E’ interessantissimo… usi competenze
diffuse, le organizzi… Certo che c’è bisogno di organizzazione, ma non per
piantare la bandiera. Quando serve usi la bandiera, quando non serve, la bandiera che la
tiri fuori a fare? Fa ridere... Se non ti preoccupi della tua stessa utilità allora il
progetto viene sempre riconsegnato. Far nascere, nel far nascere altro tu
capisci anche in quali luoghi tu continui rigenerarti, a rinascere e in che
luoghi ti inaridisci, muori…
Uscire, sapere quanta vita c’è in giro. La vita non è
raccolta nei servizi che organizziamo per rispondere ai bisogni. Ma la vita
continua ad esistere, fuori da noi. Se lo scopro, posso aiutare quei processi.
Posso portare le competenze a sostenerli. Un condominio con 24 famiglie, è
diventato luogo comune, perché in due appartamenti li ho destinati a qualcosa.
In uno apro un appartamento per accogliere persone fragili, psichiatriche,
disabili… in un altro una famiglia di accoglienza nella quale poi ruotano
figure difficili, magari messe alla prova… Ho in mente una aclicasa… non è
facile, ci sono le resistenze… perché finchè si tratta di mettere lo spazio
comune, il porteriato sociale, costa un po’ di più ma va bene… ma convivere
davvero con la fragilità che fa rumore, che magari ti deprezza il prezzo di ciò
che hai acquistato… c’è tutta una negoziazione. Il conflitto va aperto. Va
gestito. Ci vuole un bravo animatore di comunità che fa questo e gestisce tutta
la mediazione. Ma si innestano cose creative. Poi in quel condominio capita che
i disabili fanno gli assistenti famigliari delle famiglie di anziani… che le
famiglie di accoglienza gestiscono gli acquisti collettivi dal gas per tutti…
nascono una serie di attenzioni, di scambi… gli anziani, con i figli sposati
che sono andati altrove e che si ritrovano con un appartamento troppo grande,
lo danno ad una giovane coppia che aspetta un figlio. Con una transazione
economica, ma che non è solo un dato economico. C’è come un lascito a figli
adottivi. Succedono queste cose in un condominio. Se succede una cosa così, è
perché c’è una situazione di soglia che ha intercettato e cambiato le vite
quotidiane. C’è un progetto, certo. Ma queste cose non le scrivi nel progetto.
Non puoi aspettartele per default dal progetto. Tu costruisci la traccia e hai
attenzione. Poi devi vedere cosa nasce. Aperto agli imprevisti. E sapendo
accompagnare. E non serve per forza che sia il condominio acli. Si può fare in
condomini normali. Le condizioni di partenza cambiano sempre. Si parte da quel che
c’è. Dalla realtà. Non si costringe la realtà in false rappresentazioni in cui
non riesce a stare.
La responsabilità nella relazione. La competenza va usata
per costruire una concezione della responsabilità che sta nella relazione.
Siamo abituati a rispondere dei gesti e delle conseguenze. Mi verrebbe da dire…
no! Troppo tardi! Che me ne faccio di una responsabilità del genere? La
responsabilità dobbiamo esercitarla prima. Sul piano giuridico va bene, rispondiamo degli effetti. (Se
fossimo chiamati a rispondere delle intenzioni saremmo tutti in carcere). Ma le
grandi scelte chiedono una responsabilità collocata a monte, non a valle. La
responsabilità deve arrivare sopra, a istituire la scelta, a dare una forma.
Anche perché è il prima che chiama a relazione e partecipazione. Dopo, cosa
resta?
La responsabilità è anche farsi interrogare dalla vita. Costruire
il nostro modo di vivere, di risparmiare, di consumare, di usare il tempo… Vuole
dire che quando incontri una situazione che ti provoca e ti chiama, ti fermi e
ridisegni e dai origine ad una scelta. Perché quella responsabilità si è
collocata prima, ha chiesto ed ottenuto una frattura instauratrice. E’ la
responsabilità che ti obbliga a non considerare le cose come inammovibili, le
scelte passate come immodificabili. La responsabilità viene prima di quella
scelta. E se la realtà ti provoca devi ascoltarla.
Gli aclisti, poi, sono fatti di cose molto pratiche. Ma con
una attenzione particolare. Il processo di liberazione delle persone. Dove si
colloca Freire e don Milani? Io sono cresciuto tra queste cose, per forza che
sono finito nelle Acli. E’ stato un rotolamento naturale. Dove è il processo di
liberazione? In America latina forse… , qui è più complesso. Dovresti fare una
analisi per cui … Morel dice che ci sono stagioni in cui il rischio è
l’oppressione, per cui ci deve essere una grande attenzione alla libertà, altre
stagioni in cui il legame è in crisi, per cui è centrale la fraternità. Oppressione,
esclusione. E’ sottile... Oggi la questione è la fraternità. Forse il processo di
liberazione parte dalla capacità di coltivare attenzione. Come diceva Simone
Weil, giovane donna filosofa, la più grande del 900, in 34 anni ha prodotto più di Heidegger in 60…
dovete tornare a leggerla. Ma per la Laudato si, vi do il tempo prima che inizi
la scuola, per questo vi do 2-3 anni. Ma va letta, assolutamente. Va letta per
recuperare, appunto, il concetto di attenzione. La capacità di stare vicino al
gemito e al fremito delle persone. E di sentirlo come tuo. Gemito, fremito.
Dove nasce, dove fatica e soffre. È questione di collocazione, di presenza.
Quando ero presidente provinciale avevamo una rivista a
Bergamo, Presenza aclista. E questa questione era una interrogazione continua: dove
riuscivamo a stare. Non una collezione di bandierine. Non basta esserci, per
esserci. Avevamo un vescovo che non mi riceveva da 2 anni. Siamo stati obbligati
a pregare per conto nostro. Poi avevamo anche parroci vicini. Ma siamo stati obbligati
a coltivare con serietà il nostro essere cristiani adulti, siamo stati
costretti a farlo. Abbiamo coltivato con serietà il nostro essere cristiani
adulti. Poi sono cresciuti i circoli. Crescevano gli iscritti. Poi il vescovo
mi ha ricevuto.
Cristiani adulti attenti. E’ l’essere aclista. Dove essere
presenti, è una questione decisiva per le Acli. Le grandi marginalità sono
presidiate. C’è chi presidia le carceri.
Le tossicodipendenze… Cosa resta non presidiato? Il quotidiano... famigliari dei detenuti. Ad
esempio. Le storie dei figli che vanno a finire nelle reti della tutela minori,
famiglie affidatarie, mogli, fratelli stigmatizzati, le carceri sono abitate da
poveracci. C’è anche qualche criminale, ma è insensato tenere questa forma. Ma
io non sto pensando che le Acli debbano lavorare in carcere. Bello se ogni
tanto vanno in carcere, se scoprono un mondo, ma sulla ferialità c’è l’urgenza
e c’è scopertura… (andrebbe anche bene che qualche dirigente andasse in carcere,
che così poi puoi fare un intervento da dentro... più efficace… ma non è un
augurio eh…). Ma pensate alla ferialità delle famiglie sul territorio.
La ferialità. Certo, bisogna andarle a cercare. Bisogna avere
i radar. Saperle leggere. Avere pazienza. Soprattutto in territori in cui
pudore e orgoglio fanno ritirare negli spazi privati. Conquistare piano piano
la fiducia. La relazione. Non è facile. Ma per questo c’è una scuola. Per
questo vi formerete. Per essere animatori. Per avere gli occhi giusti. Per leggere la vita nelle
vicende normali. Per tessere la vita nella realtà. Non c’è bisogno di stare
sull’estremo. Le Acli non sono fatte per stare sull’estremo. Sono fatte per stare
nel quotidiano, è più che sufficiente. Nel quotidiano previeni l’estremo. Ma
non solo. Nel quotidiano scopri le risorse. Perché ci sono mille risorse di
vita. A noi spetterebbe solo di collegarle. Perché il lavoro è tirarle fuori
dalla solitudine e da una rappresentazione di sé passivizzante. Siamo la cardio
aspirina della vita sociale. Siamo di fronte a tessuti che si pensano non
elastici, invece è solo problema di connettività.
Non è neanche questione di compiere il progetto. Nella
realtà, ciò che conta è ciò che c'è. Qualunque cosa fai, pur parziale, se ha senso, è preziosa. Non è tutto? Ma quando mai
sarà tutto! E’ qualcosa. Qualcosa è molto! Non per auto assolversi. Per non
immobilizzarsi! Non c’è bisogno di precondizioni fisse. Se hai un circolo fatto
di giovani, bene. Se ce l’hai fatto di anziani, bene. Faranno cose diverse… Hai
un gruppo di sole donne? Staranno attente
a questioni del femminile, al rapporto tra cura e espressività e a molto altro…
Non voglio chiudere in categorizzazioni. Voglio dire che è sempre possibile
qualcosa. La possibilità, non la probabilità è ciò che ci interessa. C’è un
circolo Acli con molte donne immigrate che da lì sta rivoluzionando la scuola
del paese. Ha costretto la scuola ad uscire dalle retoriche della pura
alfabetizzazione... Non lo sai prima, ma quando parte la vita, poi cresce, va a
toccare i luoghi che non ti sembrava toccasse. Ti sembrava un limite un circolo
senza uomini, invece è andato a toccare la scuola. Magari in un altro
territorio nasce una cooperativa di assistenti famigliari (Meglio mista la
cooperativa, assistenti famigliari e famiglie, non solo badanti, non solo
famiglie...). Non c’è bisogno di un progetto nazionale per farlo nascere. È
questione di sguardo. Di lettura. Di intenzionalità costruita con altri. Con il
gusto che dopo 6 mesi verrai a raccontarlo a Roma al corso. Con gli adulti la
formazione si fa così. Una volta ogni tanto una bella lezione. Poi ognuno si
prende sul serio nella responsabilità della propria esperienza e competenza.
Frammentata e parziale. Per questo siamo qui a cooperare, tra noi.
Fraternità. Sfida di oggi. La fraternità non è un valore da
immettere. È una condizione, soprattutto in tempo d’esodo. Dipende da come gli
altri ci incontrano e da come noi incontriamo gli altri. Come gli altri ci
guardano e come noi li guardiamo. Noi sappiamo bene che i fratelli non sono per
forza solidali. Ma sono, per forza, fratelli. Non sono per forza buoni tra
loro. Ma non possono evitare di relazionarsi tra loro. Senza annullare l’altro.
Possono essere buoni. Dipende. Spesso sono anche contradditori. Caino, nella
nostra versione è un po’ asciugato, nella versione talmudica è più dettagliato.
Caino sta lottando con Abele, ma porta dentro il rancore e ne è consapevole,
quindi è meno efficace nella lotta. Il rancore lo erode. Abele sta prevalendo.
È più giovane. È più libero di mente. Abele ha un sasso in mano e sta per
colpire Caino. Caino lo guarda negli occhi: cosa dirai a nostro padre? E così lo ferma. Perchè il padre aveva detto
ai figli: siate fratelli. Come padri non diciamo: guai se non ci curate quando
siamo anziani. Diciamo: siate fratelli. Siate fratelli. Abele si ferma. E non
diventa omicida. Caino lo ha salvato. Poi però Caino non regge, per lui, ciò
che ha serbato per il fratello. E’ sopraffatto dalla paura e lo uccide. E Dio
dice: guai a chi tocca Caino! Nessuno può cancellare il fatto che ha impedito
ad Abele di diventare assassino. Nessuno può cancellare il fatto che sia diventato un
assassino. Noi portiamo dentro le due cose. Noi abbiamo bisogno di richiamare
il fratello a tirar fuori la parte
migliore di sé. E abbiamo bisogno di sostenere per noi stessi questo richiamo. La
fraternità non va costruita, è un dato, c’è già. Solo che ha condizioni di
fatto molto problematiche. La fraternità va richiamata a se stessa. La
fraternità va richiamata alle sue responsabilità.
Una condizione di fatto molto problematica. Non c’è più principio
gerarchico. Per i cristiani c’è un tempo di grazia grandissimo. Per scoprire
che il volto di Dio non abita nell'autorità, abita nell’altro, dentro la sua fragilità giocata male. Scoprire l’autorità dal basso, non dall’alto. Lo sfiguramento rischiato
dall’umano ti chiama alla responsabilità della cura. E lì l’autorità che può
rendere buona la nostra fraternità. L’autorità
non viene dall’alto, viene dal basso.
Di fronte a questo, hai la responsabilità di scegliere gli spazi
giusti, le frequentazioni giuste. Di decidere a cosa dedicare tempo. C’è
bisogno di chiederci: quali cose aiutano a capire che declinazione dare alla
nostra fraternità? Quali cose sono di ostacolo? Chi dobbiamo frequentare? Con chi
dobbiamo accompagnarci? Non per escludere. Per aiutare a crescere. Come i genitori con i figli, si preoccupano delle compagnie...
Tutto questo, dal punto di vista della formazione, rappresenta
una sfida delicata, su piano epistemologico, della disposizione cognitiva e
vissuta. Ha a che fare con che persone siamo, al di là del ruolo e della
professione. Che persone siamo e che persone vogliamo diventare. E’ una sfida
grande, etica, affettiva. Pratica. Fare i conti con il limite. Con tutto ciò
cui dovrai rinunciare. Perché non c’è. E con tutto ciò cui dovrai rinunciare, perché
non ti aiuta.
Tenere ferma una domanda: Cosa consegnerò, di ciò che faccio
e di ciò che incontro? Ciò che faccio, visto nell’ottica del lascito, non del
possesso, nemmeno della soluzione. Se contano i lasciti, la forza simbolica dei
nostri gesti supererà anche l’evidenza del limite di ciò che facciamo. La
trasfigurerà un po’. I nostri figli ci vogliono bene,
non per le per le cose specifiche, non per la perfezione. Noi ricordiamo i nostri padri non per la perfezione. Siamo diventati adulti. Ma ricordiamo delle
parole, dei momenti, dei gesti, spesso banali, quotidiani, semplici, li ricordiamo perché sono
elementi di trasfigurazione. Sono gesti e parole che indicano qualcosa di
ulteriore. Una destinazione. Un confidare ulteriore. Una sorta di filialità
comune. In quel momento i nostri padri e madri si sentivano affratellati a noi,
perché figli d’Altro. E ci chiamavano ad essere figli, in una sorta di comunione
di fratelli e sorelle tra noi e con loro, tutti e tutte figli d’altri e d'Altro.