Gardensia


La Gardenia sta per tornare (8-9-10 marzo).
E al gruppo scout Roma 92 ci si prepara.
Con Autora (che gioca in casa), Emiliano e Isabella, di AISM Roma.

Testimonianza, informazioni e #senticomemisento.
Piccolo laboratorio per provare (parzialmente e temporaneamente) sul proprio corpo i sintomi della sclerosi multipla.


Don Sardelli



 

All'Acquedotto Felice imparammo a spogliarci del vestito che ci avevano messo addosso di essere portatori di bisogni e indossammo l'abito di portatori di diritti.

Un bell'articolo di Internazionale su Don Sardelli.

Veniva spesso da noi, quasi ogni sera prima di tornare a casa sua, che era distante un isolato dalla nostra. Era prima che il quartiere Prenestino fosse chiamato “il Pigneto”, prima che la speculazione immobiliare trasformasse una delle zone più popolari di Roma nel posto dei locali e della movida. Era sempre vestito con un maglione colorato o una camicia a quadri, non aveva l’aspetto di un prete, anche se tutti nel quartiere lo chiamavano “don Robbè” e andavano a trovarlo a casa, bussando alla porta di legno che lasciava sempre aperta. Era spesso seduto alla scrivania a riordinare i suoi appunti scritti a mano, aveva musicato le poesie di Federico García Lorca che sapeva a memoria, amava molto il flamenco che aveva studiato in Andalusia. 

Si sedeva in salotto e raccontava le storie delle persone che aveva incontrato e poi parlava della città, di Roma, dei suoi amministratori e delle loro mancanze, parlava di quelli che erano stati “rifiutati dalla città”, della possibilità e dello spazio della politica. Negli anni novanta andava tutti i giorni a Villa Glori, ai Parioli, ad assistere i malati terminali di aids. Erano persone che vivevano lo stigma di una malattia di cui nessuno voleva parlare, perché era circondata da pregiudizi e vergogna. Riguardava soprattutto omosessuali, trans, prostitute, tossicodipendenti. In pochi posti di Roma era riuscito a raccontare questa esperienza durata dieci anni, che ha poi raccolto nel libro Le margherite sono le nuvole del prato (1998). 

Roberto Sardelli è morto il 19 febbraio a Pontecorvo, in provincia di Frosinone, a 84 anni, dopo una lunga malattia, circondato dalla cura di quelli che un tempo erano i suoi ragazzi, gli studenti del doposcuola che il prete aveva creato alla fine degli anni sessanta nella baracca 725 all’Acquedotto Felice, nel quartiere Tuscolano di Roma. La sua esperienza di prete, di maestro di strada, ma anche di analista attento ai cambiamenti sociali è incredibilmente attuale in una città in cui 15mila persone vivono per strada o in alloggi di fortuna e dove le disuguaglianze sono sempre più forti. 

Nei racconti di Sardelli c’erano sempre le persone. Ricordo per esempio la storia di una coppia di trans: una delle due era ricoverata in ospedale allo stadio finale della malattia e l’altra andava tutti i giorni a trovarla. Sardelli raccontava i particolari della cura, anche senza speranza. Diceva di aver imparato molto da quella coppia che per la maggior parte della vita aveva dovuto proteggere il suo legame dal giudizio della società. Di lui mi colpivano due cose: le guance scavate in contrasto con gli occhi enormi e vivaci e le molte storie che raccontava con una capacità affabulatoria rara. Sardelli era sempre umano, come l’accento ciociaro che gli coloriva le frasi, altrimenti pronunciate in un italiano forbito. 

Poteva inabissarsi in posti che noi frequentavamo senza accorgerci da chi erano abitati, per poi riemergere e raccontare che cos’era davvero Roma

Si faceva interrogare dalle storie delle persone che frequentava e non usava quasi mai parole scontate, sembrava che avesse scelto soprattutto di ascoltare. E poi di non essere neutrale. Era antiautoritario, voleva stare vicino a quelli che erano stati allontanati dalla società. Era convinto che gli ultimi dovessero prendere la parola. Era il punto di vista ribaltato a rendere speciali i suoi racconti. Prediligeva spesso la prospettiva delle donne, in particolare di quelle più anziane, e anche questo era particolare perché pochi portavano questo punto di vista nella discussione pubblica. 

Era duro con il potere, intransigente soprattutto verso un certo perbenismo, molto severo anche con se stesso, ma mai l’ho sentito pronunciare parole di condanna verso qualcuno. Poteva inabissarsi in posti che noi frequentavamo senza accorgerci da chi erano abitati, per poi riemergere e raccontare che cos’era davvero Roma, cosa stava succedendo alla città, come si stava trasformando. 

Da atea, mi colpiva che fosse angosciato dalla morte: era molto religioso, ma la fede non aveva un valore consolatorio per lui. La perdita di qualcuno era sempre l’occasione per ricordare l’unicità e la straordinarietà di quell’esistenza. I suoi discorsi più belli li ho ascoltati ai funerali. Credo che fosse per questo suo rapporto particolare con la morte che avesse un istinto radicale verso la libertà e avesse dedicato tutta la sua vita all’educazione alla libertà. 

“Prendere coscienza della propria realtà è un atto di forza. Il povero che non prende coscienza della sua realtà è fottuto”, diceva spesso. Originario di Pontecorvo, a Roma Sardelli si trasferì in una delle baracche – quella lasciata da Rita, una prostituta – nel 1968. Era appena arrivato nella chiesa di San Policarpo, al Tuscolano, quando si accorse che uno dei chierichetti, Cesidio, spariva ogni giorno dopo la funzione. Viveva con la sua famiglia in una baracca senza bagno, senza acqua corrente, senza elettricità. Un giorno il prete lo aveva seguito e aveva scoperto una città nella città, a pochi passi dalla chiesa, un insediamento nascosto a ridosso dell’acquedotto, completamente rimosso dallo sguardo e dai discorsi dei parrocchiani. 

La scuola 725
Così aveva deciso di trasferirsi nella baraccopoli, suscitando parecchie critiche da parte dei suoi superiori. Nel borghetto abitavano 650 famiglie, lavoratori edili, operai, ex contadini arrivati a Roma dall’Abruzzo, dal Molise, dalla Basilicata, dalla Calabria. Migranti interni, immigrati. Nella capitale gli affitti erano proibitivi: “O mangiavano, o pagavano l’affitto, così nacquero le baracche”. 

I ragazzini frequentavano la scuola pubblica ed erano segregati nelle classi differenziali, erano considerati non adatti alla scuola, erano trattati come disabili. Così erano condannati ad avere le aule peggiori, i peggiori insegnanti, programmi semplificati e il loro destino era quello dell’abbandono scolastico. I ragazzi dell’Acquedotto andavano a scuola malvolentieri perché erano discriminati e soprattutto cercavano di nascondere la loro vita nelle baracche. Gli immigrati meridionali erano vittime di pregiudizi e scherno: “Dicevano che non ci lavavamo, che non pagavamo le bollette, che non pagavamo le tasse, che eravamo dei parassiti”, ricorda Emidio, uno degli abitanti della baraccopoli. 

Arrivato all’Acquedotto Felice, sulle orme di don Lorenzo Milani, il priore di Barbiana che Sardelli aveva conosciuto e frequentato, il sacerdote decise di aprire un doposcuola nella baracca 725, una catapecchia di nove metri quadrati. Il primo giorno si presentarono cinquanta bambini, tutti quelli dell’acquedotto, così dovettero presto trasferirsi in un altro spazio, la baracca di Natalino, praticamente una grotta buona per coltivare i funghi. Usavano le candele per illuminarla quando si faceva buio e la stufa a legna per riscaldarsi. 

“La scuola che io intendevo fare non era una scuola di pietà, era una scuola che doveva insegnare a inserirsi nella vita”, ha raccontato Sardelli nel documentario Non tacere girato dal regista romano Fabio Grimaldi nel 2005. Si cominciava alle 15.30 e si andava avanti fino a sera. La lettura del giornale era al centro del lavoro della scuola, i ragazzi sceglievano l’articolo che gli interessava di più, lo leggevano insieme, se c’erano dei termini che non capivano aprivano i dizionari che erano i libri più usati durante le lezioni e cercavano il termine sconosciuto. 

Si leggeva insieme finché tutti non avevano capito, poi si discuteva di quegli avvenimenti. “In quel piccolo, freddo e umido spazio non imparammo solo a leggere, a scrivere e a far di conto, ma ogni sera, a lume di una tremolante candela, giornale alla mano, imparammo a riflettere su quanto ci accadeva, su quanto accadeva nel mondo: le fragili mura venivano abbattute e sotto gli archi degli acquedotti risuonavano le voci del mondo. Dalla rivolta di Battipaglia, alla sofferenza del Vietnam, da Martin Luther King al Satyagraha del Mahatma Gandhi. Bisognava tutti uscire da un’educazione centrata sull’individuale per costruire in noi stessi uno spazio dove prevalesse l’afflato collettivo”, ha scritto anni dopo nel libro Vita di borgata. Insieme ai giornali si leggevano alcuni libri come La biografia di Malcom X o Dottore in Cina di Joshua Horn, ma si ascoltava anche molta musica. “Volevo portare il mondo a casa loro, perché i ragazzi capissero che la loro condizione non era esclusivamente la loro, ma era una condizione che condividevano con il resto del mondo”, ha detto Sardelli anni dopo. “All’Acquedotto Felice imparammo a spogliarci del vestito che ci avevano messo addosso di essere portatori di bisogni e indossammo l’abito di portatori di diritti”. 

Nella scuola 725, i ragazzi si resero ben presto conto che i libri di testo della scuola pubblica non erano adatti per loro e così decisero di scrivere il proprio libro di testo: disegnarono e composero interamente il libro. “Dovevamo diventare saggisti, dovevamo diventare poeti, dovevamo diventare scrittori”. Molti intellettuali, giornalisti, registi, scrittori conobbero l’esperienza della scuola e cominciarono a frequentarla. I ragazzi li incontravano, li interpellavano, gli facevano molte domande, poi ogni due settimane componevano un giornalino che stampavano con il ciclostile e che conteneva le loro discussioni, le loro inchieste, le loro interviste. 

A un anno dall’inizio del doposcuola, il sacerdote chiese ai ragazzi di scrivere una lettera al sindaco di Roma, Clelio Darida, per denunciare la loro condizione: “Quando cominciai a leggere i cartoncini su cui avevano scritto i loro pensieri mi accorsi che lì c’era del materiale ben più importante di quello che avevo pensato”. Così nacque la lettera al sindaco di Roma alla cui stesura i ragazzi della scuola 725 lavorarono per dieci mesi, in un lavoro che era soprattutto didattico e che aveva come obiettivo la presa di parola attraverso un’elaborazione collettiva. In un primo momento le autorità ne furono spaventate, il prete fu convocato dal cardinale vicario che chiese di non pubblicare il lavoro. Nella lettera c’era scritto: 

Il luogo dove viviamo è un inferno. L’acqua nessuno può averla in casa, la luce illumina solo un quarto dell’Acquedotto. Dove c’è la scuola si va avanti con il gas. L’umidità ci tiene compagnia per tutto l’inverno. Il caldo soffocante l’estate. I pozzi neri si trovano a pochi metri dalle nostre cosiddette abitazioni, tutto il quartiere viene a scaricare ogni genere di immondizie a cento metri dalle baracche. 

La lettera fu pubblicata nel 1970 ed ebbe una straordinaria diffusione, anche grazie alla stampa, che gli diede massima visibilità. Era un documento didattico, ma anche politico, dimostrava che anche dei ragazzini di età differenti in un contesto così svantaggiato potevano rifiutare le disuguaglianze e prendere parola nello spazio pubblico, come atto di emancipazione e libertà. 

“Non tacere è parlare, perché nella situazione dei baraccati le istituzioni giocavano sul silenzio, sul silenzio costruivano i pregiudizi, alimentavano le dicerie. Non tacere diventò uno slogan, non tacere fu come gridare la nostra dignità”, ha spiegato una volta Sardelli. E questo è il lascito più grande di un uomo che ha creduto nella presa di parola come azione politica, come forma di conflitto contro le ingiustizie e le disuguaglianze, in una città che ancora oggi, a cinquant’anni di distanza da quella lettera, tollera l’esistenza dei ghetti, delle baraccopoli e di disuguaglianze profonde a cui risponde solo con le forze di polizia, con gli sgomberi, con interventi repressivi di ordine pubblico. 

I ragazzi della scuola 725, nel frattempo, sono diventati maestri di scuola, operai e sindacalisti, l’Acquedotto Felice invece è stato sgomberato nel 1973 e la maggior parte delle famiglie è stata trasferita alla periferia di Ostia, nei palazzi di edilizia popolare di Nuova Ostia. Dopo una lunga battaglia per la casa, i baraccati hanno ottenuto quello che volevano, ma nei loro confronti non si è interrotto lo stigma e la segregazione, anche se sono andati ad abitare nelle case. “Le nostre famiglie, i nostri ragazzi erano stati deportati in un ghetto che tale non era come si voleva far credere. In quest’universo concentrato di Nuova Ostia il tessuto umano che faticosamente avevamo organizzato si sfilacciava”. 

Nel 2007 un gruppo di ex studenti della scuola 725 con Sardelli e con un gruppo di urbanisti scrissero una nuova lettera al sindaco di Roma che intitolarono “Per continuare a non tacere”. Criticavano la gestione della città come vetrina per eventi culturali episodici che si concentravano solo nel centro, e chiedevano l’investimento in una nuova forma di welfare territoriale che partisse dai municipi. 

“Occorre produrre legame sociale, fare società, fare città. E occorre produrre legame sociale attraverso il conflitto. La missione per la politica è quella di fare società, costruire solidarietà con iniziative che diano contenuto alle giuste aspirazioni e maturino la cultura della convivenza”, è scritto nel documento. E ancora: “Ricominciare dall’ascolto. L’unico modo di uscire dalla situazione di stallo in cui i partiti si stanno accartocciando su se stessi è quello di non chiudersi nel lamento, ma quello di avventurarsi nel campo aperto della cultura, della politica e del contatto con le persone, che non può essere sostituito da un passaggio televisivo”. 


Cosa vuol dire condividere la lotta










Don Sardelli.
Cosa vuol dire condividere la lotta.

Figura imprescindibile, parlando di periferie.

Quando ti verrebbe da fermarti, rilanci...


Francesca Paini

Vengo da Como. Ho 54 anni. Sono assistente sociale. Ho rinnegato tutto. Credo che questo sia un prerequisito per fare animazione di comunità. Iniziare da ciò che si rinnega. 

Starei sulla chiave esperienziale e biografica. Passando da 2 progetti:
- housing sociale 
- sviluppo della bachicultura
Sono cose tra loro diverse. Ma l’approccio di animazione si presta ad essere applicato ovunque.

1. Housing Sociale. 
Fondazione Scalabrini. Si occupa di casa. La casa è una cosa che fa famiglia. La presenterei come la migliore esperienza di fallimento che io abbia mai avuto. Dal 2004 al 2011 la Fondazione è stata gestita e governata con una logica che definirei maschile (quali che fossero gli attori). La Fondazione aveva 80.000 Euro e aveva l’obiettivo di costruire condomini sociali. La coerenza mezzi/fini non era il suo forte. Ha esaurito il patrimonio in studi di fattibilità. A quel punto ci siamo detti: o chiudiamo o facciamo altro. 

C’è stato un cambio del gruppo dirigente e la scelta di non dare un mandato se non quello di: vediamo cosa riusciamo a fare. Un mandato debole aiuta molto, in certe situazioni. Aiuta a rischiare. Se devi costruire un condominio, non hai margini per sbagliare. Se non hai una situazione di partenza e non hai niente di definito da fare, non hai niente da perdere. E’ una fantastica opportunità, quella di partire da un fallimento. 

Ci vogliamo occupare di case. Dare case alle famiglie. Perché la casa fa famiglia. Ma come si fa a fare case se non si hanno soldi e non si hanno case? Cominciamo a fare relazioni. Siamo andati a raccontare che c’eravamo. Che volevamo fare housing. Che cercavamo piste. Questo andare ha prodotto un aggancio. Una signora ci ha chiamato per dire che aveva una casa. A Varenna, 1 ora e 10 minuti di distanza da Como. Varenna. Vista lago. Casa bellissima. Vista bellissima. Una casa che non la voleva nessuno, perché era in posto dimenticato da Dio e dal mondo. Uno degli elementi dell’animazione è cogliere le occasioni. Occasioni che capitano, con gli  elementi di rischio che hanno. Abbiamo preso in gestione quella casa. 

In quel periodo ho pensato che se mi fossi fatta pagare 200 Euro per ognuno che vedeva la casa e gli veniva in mente che in realtà aveva un’altra soluzione abitativa, sarei diventata ricca. Anche questa è una funzione. La casa era bellissima, ma veramente scomoda. E questa scomodità  attivava le persone (e anche i servizi sociali) a trovare altre soluzioni. E ha aiutato noi a capire che la casa non è un oggetto. Molte cose non sono un oggetto. Sono un progetto, una prospettiva, un modo di ragionare. La casa è la questione dell’abitare. A che fare con i progetti che le famiglie costruiscono con se stesse. Anche questo è animativo. Siamo riusciti a mandare una famiglia in quella casa. Una famiglia che veniva da Milano. 

Ce l’ha restituita dopo poco, la casa. Trovando un’altra soluzione. Ma questo aggancio ci ha aperto un mondo. Abbiamo scoperto che ci sono persone per cui avere una casa è un problema. Questa persona viveva a Londra. Non riusciva a gestirla la casa, da Londra. E allora ci siamo domandati: per chi altri la casa è un problema? C’è un sacco di gente. Tipo chi la eredita e la deve tenere 3 anni vuota, perché ha nipote che ne avrà bisogno, ma non oggi, domani… chi la eredita ma sono 7 fratelli e decidere in 7 è complicato… chi ha la casa perché ha fatto un piccolo investimento, ma ha fatto esperienza, l’ha affittata male e gliela hanno distrutta… abbiamo cambiato prospettiva. Non vogliamo chiedere collaborazione per aiutare gli sfrattati. Vogliamo aiutare i padroni di casa: “Padroni di casa, noi siamo gli inquilini perfetti, fidatevi di noi”. 

Il cambio di prospettiva ci ha fatto molto bene. Sfocalizzarsi dal bisogno e focalizzarsi sulle risorse fa molto bene. Lavorare sulle risorse che ci sono,  non su ciò che manca. Trovi molte persone che sono contente se gli risolvi il problema della casa. Lavorare sulle risorse che ci sono e non su ciò che manca. Noi prendiamo in affitto. Siamo inquilini meravigliosi, paghiamo in anticipo, lasciamo bene l’immobile e andiamo via quando ti serve. Ma tu abbassi gli affitti. E li dai a chi scegliamo noi. Perché siamo noi i garanti. 

Avevamo una casa grande. E avevamo una mamma con bambino. Troppo poco per quella casa. Allora ci siamo messi a cercare un’altra mamma con bambino. Di solito si cercano case per mamme e bambini. Noi invece avevamo una casa e cercavamo una mamma con bambino. Non l’abbiamo trovata. Uscire dall’idea che le risorse sono risorse e i problemi sono problemi aiuta. E una cosa che è molto animazione.

Io nascerei assistente sociale e morirei cooperatrice. La cooperazione in sintesi è questo. Mutualizzare i bisogni li rende risorse. Qui sta il mio rinnegare l’essere assistente sociale. Nel non considerare i problemi e le risorse. Considerare i bisogni mutalizzabili e quindi trasformabili in risorse. Che poi, questo è molto in linea con l’idea di servizio sociale. E’ il modo classico di fare servizio sociale che tradisce i principi. 

Trovata la prima casa, abbiamo iniziato a raccontarla continuamente. Ogni volta che uscivamo sul giornale, trovavamo una casa. Non raccontare nel metodo. Che interessa a noi, non interessa agli altri.  Raccontare nel risultato. Raccontare nel fatto che quanto abbiamo fatto ha generato cambiamenti. E ciò che ci interessa è generare attivazione e cambiamento.

Noi avevamo case in affitto per 18 mesi. Lavorare su 18 mesi vuol dire rimettere in discussione il mandato e ricostruirlo, continuamente. Non poterti mai sedere su ciò che hai. E complicarti la vita.  Noi avevamo case per poco tempo. Se tu hai una casa per 18 mesi, è meglio che non metti una famiglia che non ce la fa’ in modo assoluto. Perché non uscirà mai. A chi fa differenza una casa per 18 mesi? Ad una famiglia fragile. Ad una famiglia che fino ad un anno fa ce la faceva. E che potrebbe tornare a farcela. Una famiglia dove non c’è un crollo di sistema. Dove c’è un inciampo. Noi facciamo housing per 12-18  mesi. Sapendo che le famiglie fragili da sole non smettono di essere fragili. E quindi, sapendo che oltre alla casa ci vuole altro. E siccome noi non abbiamo le forze, abbiamo detto che abbiamo bisogno che, oltre a noi, ci sia qualcun altro che si attiva per risolvere la situazione. Per questo noi non prendiamo singoli, prendiamo solo qualcuno segnalato da qualcun altro.  Comunque sia inteso questo qualcun altro. Può essere il Comune o la Caritas. Ma  può essere anche il medico del paese. L’invio non è questione formale o istituzionale. E’ questione che ci sia uno che dica “A fianco di questa situazione mi ci metto pure io”. E quindi la accompagni.

Con questo sistema siamo arrivati a 300 persone accolte. Fantastico. Il primo risultato è che anche quest’anno non abbiamo chiuso. Non è mai definitivo. Ma è qualcosa. Gestiamo una 20ina di case alla volta. Lo facciamo con circa 20 ore di lavoro alla settimana pagate. Con qualche apporto volontario. E 10.000 euro l’anno di contributo dai soci. Un equilibrio precario, ma che reggeva… ma…  

Ma… una famiglia non è uscita quando doveva. Una famiglia che non avremmo dovuto prendere. Aveva 4 figli. Non era una situazione adatta. Non avremmo dovuto prenderla, ma c’era il padrone di casa che voleva assolutamente un affittuario. Perché gli costavano le spese condominiali. Non avremmo dovuto prenderla, ma avevano una bambina appena nata e c’era uno sfratto. Non avremmo dovuto prenderla, ma il Comune ha detto che erano ottavi nella graduatoria delle case popolari… Non avremmo dovuto prenderla, ma una delle cose che ho rinnegato è lavorare per gli enti locali. E, se non lavori per un ente locale, le eccezioni, quando serve, si fanno. Per cui non avremmo dovuto prenderla ma l’abbiamo presa. 

La famiglia è entrata, per 18 mesi. Dopo 3 anni era ancora lì. Quindi ha fatto due giri. E nel giro di 3 anni inspiegabilmente la 7’ famiglia in graduatoria non aveva ancora avuto l’assegnazione. Il Comune ha cambiato l’assistente sociale. E’ successo ogni casino possibile. Ad un certo punto il padre, mentre la madre era ricoverata in psichiatria, ha sigillato la casa e le ha dato fuoco. Tutti morti. La casa la volevamo perché era un inizio. Quella era una fine. Non era per niente un inizio. 

E abbiamo detto: chiudiamo. E’ una fine più grande di noi. Ma poi no. Perché… perchè no. Decidiamo di andare avanti. Ma allora non si può andare avanti come prima. Deve cambaire tutto. Io credo che l’housing in questa storia abbia inciso poco o niente. Ma questa storia ha inciso in noi. Non puoi andare avanti come prima. Devi cambiare. Prima io quando raccontavo dicevo: le nostre 250 famiglie sono uscite tutte. E sono uscite in tempo. E sono uscite da sole. Oggi quella frase non posso più dirla. Quei 5 non usciranno più da lì. Mai più. 

Poi ci siamo trovati con problemi di senso. E con problemi economici. Metterla a posto, la casa bruciata che non era nostra, costava 100.000 Euro. Mica li avevamo. E poi comunque ciò che era successo richiedeva un cambiamento di paradigma. L’unico modo per andare avanti era rilanciare. Una storia finisce quando smetti di raccontarla. La storia di quella famiglia finirà quando avremo finito di comprare la casa che abbiamo deciso di comprare e di intestarla a quella famiglia lì. 

1.    Quindi, primo cambiamento, noi compriamo una casa. La compriamo e cerchiamo di dare un senso a questa casa. Non una casa qualunque. Una casa adatta ad accogliere famiglie. Noi di solito prendiamo quello che si trova. Questa casa invece la pensiamo. Per non fermarsi serve un moto contro-istintivoQuando ti verrebbe da fermarti, rilanci. 

2.     Non basta lavorare noi con quelli che ci somigliano. Questa storia ci dice che abbiamo bisogno di altri. Questa impresa è più grande di noi, per cui abbiamo bisogno dell’aiuto di chiunque. E per avere l’aiuto di chiunque abbiamo bisogno di abbassare i muri. Abbiamo bisogno di tutte le relazioni possibili. Chiedendo aiuto. Decentrandoci. Indebolendoci ulteriormente. Chiedendo aiuto. Vogliamo andare avanti con gli altri. Costituiamo un comitato di garanti. Lavorando sulle relazioni. Le relazioni  sono una risorsa. Cominciamo a chiedere alle persone che conoscevamo, a vario titolo. Non è che ci conoscevano tutti a Como. Ma ognuno di noi conosceva tante gente. Se dobbiamo raccogliere 300.000 Euro abbiamo bisogno di roba. Quindi di tanta gente. E di tante relazioni. Per questo serve il comitato dei garanti. Scegliamo 8 persone, le più varie. Persone che se gli telefoniamo non ci dicono di no. Non c’è un disegno preciso. Ma c’è un ingaggio. E ci sono dei ponti. Nel comitato dei garanti c’è Daniele. Daniele fa parte del Rotary. Lui non è il Rotary. Non lo rappresenta. Ma lui fa il ponte con quella cosa lì. 8 persone diverse, di mondi diversi, riconoscibili. Queste 8 persone sono quelle che sceglieranno la casa.  

3.     Cogliere l’opportunità come una sfida. La tragedia era tutto fuorchè ciò che avevamo sperato. E la tragedia era una tragedia. Vera. Eppure la tragedia conteneva un’opportunità. L’opportunità non è una scelta. E’ quello che c’è lì, davanti. E che puoi cogliere.

4.    Pensiero strategico. Cogliere l’opportunità vuol dire che non hai certezza di quali saranno i prossimi passi. Ma che hai un pensiero strategico. Solo con un pensiero strategico puoi riconoscere le opportunità quando ti capitano. Anche se sono nascoste all’interno di fallimenti o anche tragedie. 

5.    La comunicazione sui finiIl futuro. Alle famiglie abbiamo sempre detto: non vi diamo una casa, vi diamo del tempo. La dimensione è sempre stata giocata sul futuro. “Tra le 100 segnalazioni che ci sono arrivate, tu sei quello che abbiamo pensato che ce la può fare, in un anno”. Lavorare rendendo risorsa quello che c’è davanti, non quello che c’è adesso. Si chiama anche bleffare. A volte. Ma pensare che il risultato è là, due passi avanti, non qui dove sei ora. Non sei mai del tutto sicuro che c’è. E’ indeterminatezza. Ma su quella indeterminatezza ci puoi costruire. 

Quindi, per esempio, partendo così è venuto fuori di tutto. 

Ad esempio è venuto fuori un gruppo di artisti di Como, che non avevo mai sentito. Stavano in un bar molto hipster, in centro. Bevevano  birre, stavano in centro. Avevano fatto “Il Natale con le palle”. Gli artisti hanno dato delle loro opere. C’era la moneta da estrarre e uscivano le palle con il numero. Tu portavi via l’opera a 30 euro al pezzo. Loro tra mezzora danno il raccolto. Sono 9.000 Euro. Loro hanno messo in moto i loro giri. Noi i nostri. C’erano 120 opere. E alla fine ne erano rimaste meno di 20. La fondazione Scalabrini da sola non aveva quella forza. Forza fatta di risorse di relazione personali. Di cose che si raccontavano bene. Di valori molto immateriali. Ma poi ci sono 9.000 Euro. Che sono concreti. 

Una libreria di Cantù ha fatto un concorso con dei disegni. In cui tutti i ragazzi testimonial, il sindaco, il capo dei pompieri, tutti fanno dei disegni sul tema “Verso casa”. Tutte le opere devono essere con misura 21x21. E vengono esposte in forma anonima. Tu compri quell’opera perché ti piace. Paghi 5 euro o 55 euro. E poi, solo dopo, sai se hai comprato l’opera dell’artista del momento, del sindaco o di mia cugina. L’attribuzione di valore è data dal perché ti piace. 
E’ un meccanismo divertente. Essere divertente è molto animativo.

Sono meccanismi che si sono messi in moto rendendo insatura la nostra posizione. Più ti indebolisci, più usi gli interessi degli altri come risorsa per te. Gli artisti avevano voglia di fare una mostra. La facevano già, ma non l’avevano finalizzata. Facendola assieme abbiamo spinto sulla costruzione di un futuro, in cui le persone vedono un pezzo importante e possibile per loro. La vera costruzione collettiva non è la casa, è il futuro. Noi diciamo: Como deve diventare una città capace di fare questo. 

Ci mancano ancora 40.000 Euro per fare un mutuo. Ma 40.000 io non ho mai detto: se non arrivano, chiudiamo. Perché questo nega il futuro. Giuro che non so dove trovarli. E non ci dormo la notte. Ma se hai legami, reputazione e un punto di vista chiaro, le cose si sistemano.

La reputazione l’abbiamo costruita perché non abbiamo mai fatto due cose che tutti ci hanno detto di fare: 
- Cavalcare la storia dei bambini morti. Facciamo la lotteria con le foto dei bambini. Mai, mai, mai, mai! 
- Chiedere i danni. La famiglia era segnalata dal Comune. Al Comune scrivevamo da un anno. E il Comune diceva: mi serve ancora un attimo… Io avrei potuto dire: Comune di schifo, ci hai mollato da soli. Adesso vado sui giornali e inizio ad attaccare. Ma quello riduce la coesione sociale. Riduce la fiducia. Se io faccio fare al Comune la figura dell’idiota, senza nemmeno avere una cosa concreta da chiedere, cosa ho prodotto?   
- C’è stato chi ha detto: il problema è degli eredi. Non era mica nostro. Ma io  sarei dovuta andare dalla signora. Dall’unica sopravvissuta. E chiederle i danni!

Allora l’abbiamo presa noi la responsabilità. Questi due silenzi, sono stati molto costosi, ma hanno fruttato molto.  Usare l’animazione sociale come leva per fare qualunque cosa è un elemento di metodo. E il metodo si vede. Quale è il metodo dell’animazione: relazione, centratura sulle risorse e non sui problemi, consapevolezza che le risorse non sono ciò che a tavolino definiresti risorse, pensiero strategico come pensiero sui fini. E poi un lavoro enorme di comunicazione. 

2. La bachicultura

Il progetto sui bachi è uguale, ma diverso. Como è la città della seta. Lavoriamo il 70% della seta italiana. Ma dagli anni 70, non c’era più un baco. Siamo andati a vedere una cooperativa in Piemonte e lì c’era uno che aveva 10 bachi e che li usava in carcere, per fare la pet terapy. I bachi vivono un mese, danno tantissima soddisfazione, perché crescono in frettissima. Sono uno spillo, quindi non troppo ingombranti, ma sono sempre in movimento. Mi sono detta: lo fanno loro e noi che siamo Como no? 

20.000 bachi all’inizio ci stanno su questo telefono, quando sono piccoli, ci stanno su ¾ di questo tavolo, quando sono cresciuti. Mangiano 400 kg di foglie. Questa cooperativa raccontava queste cose. E io pensavo: lo dicevano a me? A me che sono di Como? La seta la facciamo noi! Ho avuto un sussulto di orgoglio patrio e ho usato lo stesso metodo animativo.

Io ne ho presi 10 per capire. Il primo anno. C’è una parte di animazione che richiede conoscenza dell’oggetto. L’animazione sociale è lavoro sui soggetti. Ma conoscenza dell’oggetto conta. 

Da quei 10, ad un certo punto a casa mia c’erano 5.000 bachi. E’ stato un errore. Volevo ordinarne 500. Ma se ne avessi ordinati 500 li avrei gestiti io. Siccome ne sono arrivati 5000 abbiamo dovuto inventare soluzioni diverse. 

Mi sono chiesta: a chi interessa? Museo della seta, scuole, imprenditori tessili, case di riposo (perché i vecchi avevano i bachi in casa, li tenevano sotto il letto, era un’attività che li riconnetteva alla loro storia). Abbiamo messo insieme relazioni di persone a cui quest’idea, anche per motivi diversi, piaceva. Poi abbiamo fatto l’incauto acquisto. 

Per piazzare 5.000 bachi, dopo la prima rete di relazione, la comunicazione. Un post al giorno su fb. Iniziato in maniera innocente, ha generato un movimento pazzesco. Ha incrociato gli interessi degli imprenditori. Delle imprese agricole, la possibilità di fare laboratori. Del baco sono emerse mille potenzialità. Esiste come economia integrativa? Può essere un lavoro per i disabili? E’ un lavoro ripetitivo, semplice, di grande soddisfazione… 

Io domani a Roma ho convocato 15 cooperative che si occupano già di bachi o sono interessate a ragionare assieme. Relazione, cogliere opportunità, costruire un futuro condiviso. Vedere le risorse di quel che c’è. Intercettare gli interessi. Comunicazione. Relazione. 

Domanda: ci vuole una certa attitudine per muoversi in questo modo…

Secondo me ognuno ha la sua strada per arrivare a questo. Io ho questa. Ognuno ha la sua. Ho un collega bravissimo e non ci assomigliamo in niente. Io uso questa leva. Ognuno ha la sua. Non siamo uguali. Non dobbiamo essere uguali.

Domanda: Come si fa, tra persone diverse, a lavorare assieme? Tu e il tuo collega? 

Valorizzando le competenze sui ruoli, lavorando sull’organizzazione. L’animazione è creatività, ma serve anche l’organizzazione. Ad esempio, io sono disorganizzata. Non sono sistematica. Lui si: ruoli. 

Mentre ad intercettare gli interessi è l’insaturo. Io sono andato a dire: vorrei... Il resto è  oggetto di costruzione. Via via che lavori, lo includi. Al museo della seta, quando abbiamo fatto la festa, c’erano i bambini, i nonni. Abbiamo fatto il selfie con il baco. E’ divertente. Che sia divertente è fondamentale. Ad un certo punto al museo c’erano 300 bambini. Quando abbiamo portato i bambini quelli del museo mi hanno detto: Giurami, 300 bambini qui, mai più! E non è un modo di dire. I bambini non li vogliono. Perché poi non è che gli interessi degli altri siano sempre logici o coerenti. Per me sono matti. Ma se non li vogliono, inutile che passiamo da lì, per arrivare. Passiamo da un’altra strada. Che non vuol dire rinunciare. 

E’ arrivata una tale dicendo: io lavoro con senza fissa dimora. Abbiamo un gruppo che stiamo seguendo. Sono utenti fragili. Vorremmo portarli al museo gratis. Li accompagniamo noi. Abbiamo fatto domanda. La presidente del museo ha detto: te lo scordi. Ha detto: Io ci ho lavorato in bassa soglia. Noi non siamo in grado di gestire la situazione critica. Preferisco di no. 

Stesso gruppo. Stesse persone. E’ arrivato un altro che ha detto: abbiamo fatto un laboratorio di arte con persone di diversa provenienza. Possiamo venire? Ed è andata. La capacità di intercettare gli interessi passa anche dall’esigenza che gli altri intercettino i tuoi. E dal sapersi vendere. Che non vuol dire mentire. Vuol dire dare un tornaconto anche all’altro. Gli altri ci devono guadagnare qualcosa dalla proposta che sto facendo. Se no puoi offrire solo il buon cuore. Ma se non c’è il buon cuore, non porti a casa niente. 

Domanda: Cosa c’entrano le Acli?

Parto dal mio errore, così è più facile. Non c’entrano moltissimo. Ma se non centrano è perché ho sbagliato. Lo prendo sulla raccolta fondi. In una situazione pratica. Ad un certo punto, mancavano i soldi, io non ci dormivo la notte per pensare a come fare. Ad un certo punto ho detto: io non devo dormire la notte? Mica è mia! Perché non devo dormirci io, mentre i soci della Fondazione Scalabrini non sentono la responsabilità? La risposta è: Perché tu li hai lasciati dormire per 3 anni o 5 anni. Le organizzazioni grosse o hanno un progetto specifico sulla cosa o certe volte adottano un forte codice maschile. Cioè l’idea che una volta messo lo spermatozoo le cose vanno da sè. L’hanno fatta partire. Serve altro? Quando è partita la fondazione Scalabrini in realtà ne sono nate due, parallele, di fondazioni. Una da parte degli imprenditori e una da parte del mondo cattolico. Una è morta ed una stava un po’ per morire. Certe volte alle grosse organizzazioni le cose importa farle, non andare avanti. Ma non c’è solo la loro responsabilità. Io non sono stata capace di intercettare i loro interessi. Non ho fatto lavoro di animazione sociale verso i fondatori. Perché, per me, se fai nascere una cosa, è chiaro che hai l’interesse di mandarla avanti. Ma io lo so come sono le grandi organizzazioni, in cui poi sei risucchiato in mille cose. Perché l’ho dato per scontato? Sapendo tutto ciò che so? Perché questo lavoro non l’ho fatto? 

Io ho iniziato alle Acli. Ho avuto l’imprinting in Acli. In una cosa che è stata  il MOPL. Movimento Primo Lavoro. Per me è stata fondativa. Ero uscita dal corso di servizio sociale. Le Acli mi hanno preso perché avevo esperienza in CNCA. Il tratto fondativo dell’esperienza in Acli è stato: questi sono i fogli, scritti a macchina, su cui c’è il progetto MOPL. Questo è un ufficio.  Ufficio, progetto, torna quando ti è venuta l’idea. Quello è l’imprinting. Poi ho passato anni a chiedermi dove è il confine tra la delega e la fiducia... Ma è stato investimento su di me. Un investimento che nemmeno io avrei fatto. E’ stato un investimento con un mandato.  I mandati sono opportunità. Anche quando non sono perfetti e completi. 

Domanda: Con i bachi cosa ci fai?

Non ti devi concentrare sui bachi. Non puoi fare concorrenza alla Cina. Lo so. Ma la filiera dei bachi è piena di prodotti. I bozzoli  possono avere mille usi, i bruchi (io non voglio) sono fantastici per dar da mangiare ai rettili di allevamento, in Svizzera ci fanno un panettone con la farina di bachi… Ovviamente nessuno può pensare di fare una cooperativa per questo. Ma bachi sono sempre stati economia integrativa…Per ora abbiamo fatto 100 barattoli di marmellata di gelso con una cooperativa di tipo B.  Poi stiamo studiando. Siamo in fase di test di alcuni prodotti. Ad esempio, le luci di Natale. Il filo, con i bozzoli… Un’impresa uzbeca l’ha fatto. E un giornalista mi ha detto: ma non ti accorgi? Io vedevo solo il baco. Lui mi ha fatto vedere: Luci, Seta: è Como. Como è la città della seta. E la città di Alessandro Volta. La produzione non è solo un oggetto. E’ un oggetto in cui le persone vedono qualcosa.  

Domanda: e le liste della spesa?  

Io raccolgo liste della spesa. Era una cosa del mio tempo libero. Io le raccolgo, tutte quelle che trovo, abbandonate nei supermercati. Ero molto felice del mio passatempo. Le mettevo in ordine. Le stiravo. Ci mettevo i titoli... Scritte da bambini, scritte da stranieri, scritte da anziani, al computer, a mano… si tovano. Basta fare attenzione. Le trovi perché le cerchi. Era una roba mia. 

Un’amica mi ha detto: carino, facciamoci una mostra. Io l’ho raccontato. Mi hanno detto: è una cosa molto scalabrina: Famiglia, spesa, casa. E’ vero. Wow. E abbiamo fatto una mostra, ci sono venute molte persone. Uno adesso ha detto che le pubblica... Le persone che venivano compravano una fotocopia della lista, che era stata prezzata in base ai prodotti che erano scritti. Poi l’ha vista un’imprenditrice tessile. E ha detto che voleva metterla in mensa nella loro azienda. E ha detto: la compro! E io: No, non sono in vendita. Ma si può affittare. Lei la prende, la porta in mensa. Le abbiamo proposto di fare il lancio del concorso di disegno tra i dipendenti della azienda. Da cosa nasce cosa. La posizione aiuta. Una posizione in qualche modo aperta. E’ una questione di posture. 


Domanda: la sostenibilità economica dell’housing sociale?

Ci sono: 
- cose che si usano gratis. Sede, fotocopiatrice….
- contributi dei fondatori. 10.000 Euro l’anno. Che servono per uno degli operatori. 10 ore.
- Le case. Sulle case ogni casa fa storia a sé. Abbiamo una casa del tutto gratis. Chi è dentro comunque paga. Questo calmiera i prezzi. Non tutte le famiglie sfrattate sono povere. C’è una famiglia in cui  lavorano tutti in nero. Nessuno gli fa un contratto di affitto. Ma pagare 400 euro al mese non era problema 
- c’è una piccola quota di scoperto che si copre con le donazioni.  Circa 1000 euro l’anno. Prima della vicenda della casa. 
Non so se è corretto chiamarlo modello di business. Dovrebbe essere un po’ più certo. Ma i numeri dicono che sta in piedi. 








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Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...