Numeri così grandi che erano un numero solo!

Papà: il quorum non è stato raggiunto.
Pietro: tu dimmi i numeri, faccio io i conti...


Esito referendum secondo Pietro.
15.533.512 sono andati a votare.
35.143.377 non sono andati a votare. 
13.334.764 hanno detto si.
37.342.125 è come se hanno detto no. 
Quindi la legge resta come era. 
Mamma: i nonni sono in un gruppo, papà e mamma in un altro. Ci si vuol bene lo stesso, no?
E anche se abbiamo perso non fa niente. Può capitare. Abbiamo fatto bene lo stesso ad andare se eravamo convinti, no? 

Pietro: certo. Comunque non avevo mai visto numeri così grandi che erano un numero solo!

Resistenza e Democrazia. Il contributo dei cattolici.




Appunti e riflessioni a partire dall'incontro Resistenza e Democrazia organizzato dalla Associazione Nazionale Partigiani Cristiani del 13.4.2016 a Roma e dalla lettura del libro "Il difensore dei deboli. La straordinaria storia d'amore del venerabile Teresio Olivelli". 

Fascismo ed antifascismo. Si può correre il rischio di compromettersi. Non si può correre il rischio di restare inutili.



La narrazione dei fascismo e della resistenza è fatta di rosso e di nero. E zona grigia. Gente di zona grigia, gente che non si schiera, che non prende posizione netta, che  decide che “primum vivere”, che non vuole compromettersi…

E se la realtà fosse più complessa di così? Se in quel concetto di zona grigia non fossero rinchiusi solo i piccoli egoismi e le vigliaccherie ma infinite storie, estremamente diverse tra loro?

Non è uguale il giudizio storico. A stabilirlo basta la domanda di Bobbio "Cosa sarebbe successo se, invece degli alleati, avessero vinto i nazisti?".  Ma la Storia è fatta di storie di persone. La Storia si giudica. Le storie si vivono.

La resistenza al fascismo fu una rivolta contro il conformismo ha detto Sergio Matterella. Ed è conformismo e retorica l’idea che di fronte all’ingiustizia solo la lotta armata abbia valore.  Non è un periodo fatto solo di rosso e di nero. Ed il grigio non è solo mille sfumature di diverse motivazioni alla non definizione e alla non azione. E' anche azioni diverse e appartenenze diverse.

Teresio Olivelli, un impegno ad andare contro corrente. E' contro corrente nel fascismo. E' contro corrente come partigiano. Non è conversione, tra una fase e l’altra della vita. Semmai transizione e maturazione. Teresio sceglie come primum bonum il Vangelo. E rispetto a questo trova fattori discutibili tanto nel fascismo quanto nella resistenza.  

E’ consapevole dei rischi che si corrono nell’entrare o affiancare il fascismo. È consapevole dei rischi che si corrono nell’entrare o affiancare la resistenza. Non sono solo i rischi di vita a preoccupare. Sono i rischi di complicità e corresponsabilità dei fattori discutibili. Eppure, nel tormento e dramma interiore, decide di correrli, perché li ritiene necessari.

A 21 anni, come tutti, riceve automaticamente la tessera di partito. A volte le scelte non sono scelte. Sono solo adesione a ciò che accade. Sono normalità.  O incapacità di formulare una proposta alternativa. O aver perso l’attimo, il ritmo. La resistenza al fascismo fu rivolta contro il conformismo.

A volte le scelte sono una diversa valutazione dei pro e contro. Privati. Rifiutare la tessera era escludersi dalla vita accademica. E pubblici. Mussolini non gli piace. Ma, da cattolico, teme di più il comunismo ateo che vive come minaccia internazionale. E per lui la Spagna non è questione di destra e sinistra. E' perseguitare chi professa la fede.

Le scelte non sono quasi mai bivi netti tra bene e male. Sono discernimenti faticosi tra beni diversi e mali maggiori e minori. 

E poi Olivelli ha capacità e passione sociale. L’esperienza della Fuci la vive e ne prende molto. Ma quel modo di fare antifascismo gli sembra sterile ed incapace di incidere. Può accettare di compromettersi con il fascismo, non può accettare di essere inutile di fronte al fascismo.  Accetta il fascismo. Lo fa sognando (illudendosi) di convertire il fascismo permeandolo di umanesimo cristiano. E su questo si impegna, rischiando e giocando la sua differenza. Non è vigliaccheria, semmai supponenza.

“Chi volesse far colpa a Teresio Olivelli di aver accettato il fascismo, dimentica che in quegli anni il mondo italiano non offriva altra strada e che il rimanere in disparte raramente significò superiorità di mente, integrità d’animo, ma stanchezza e scetticismo. I  peggiori non sono coloro che militano, ma che rifiutano di compromettersi per inerzia, per calcolo. Camminare con il proprio tempo, fare la strada ch’esso ci offre, per un giovane è impegno che non degrada, anche se, per il momento, è un deviare” (don Primo Mazzolari).

Sul fronte delle storie decide di starci, ci sta. Ma è, comunque e sempre, dramma e tormento interiore. Non è mai comodo. E’ domanda aperta, in continuazione.
Per la Storia è sempre più facile il giudizio storico, a posteriori, più complesso il camminare simultaneo, immersi ed imbevuti, nella vita del proprio tempo. 

Ma era prima del 1938. Poi le leggi razziali. Poi l’entrata in guerra. Non cambia il criterio. Ma dramma e tormento prendono nuove forme. E si apre il dubbio che il male minore da preferire non sia più il fascismo...
Certi regimi, nonostante i tragici investimenti nel gigantesco sforzo di instaurare ad ogni costo e pure nel sangue una umanità giusta fino all’impossibile, sono più vicini agli imperativi della coscienza cristiana moderna di tanti che, formalmente, se ne vantano fieri.  (dalla lettera allo zio).
Dramma e tormento. E la fede, come ancora cui aggrapparsi. Un Dio che conosce la Storia e le storie. E le accoglie e risolve. 
Dio è l’ordine nel mistero delle contraddizioni senza fine.

Dio è l’amore nelle lacerazioni di lotta. 

Poi la decisione di partire per la Russia. E quando torna è un sopravvissuto. Non solo alla guerra e al freddo. E’ sopravvissuto alla propria battaglia e alla propria idea:
il fascismo dal volto umano è morto, senza speranza di resurrezione.
La resistenza non è stato solo combattere. Accettare il caos e costruire la rinascita di un Paese.

Il gran Consiglio, organo supremo del regime, si riunisce. Dalle 16 di sabato 24 luglio alle 17 di domenica 25. Dopo una estenuante e drammatica discussione, alla presenza di un Mussolini stanco, sfiduciato, rassegnato, alle 3 del mattino viene votato l’ordine del giorno Grandi che prevede la fine della guerra e della dittatura e l’avvio di un percorso costituzionale. 19 voti favorevoli, 7 contrari, 1 astenuto. Il fascismo si è suicidato.

L’Italia è a pezzi. Bisogna uscirne. Ci vuole un nuovo capo del governo. E' Pietro Badoglio. Maresciallo. L’Italia fa festa. Ma non è mai facile disinnescare i processi.

La guerra continua fino alla cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista, fino alla vittoria del popolo italiano che si ribella contro la tirannide mussoliniana. Ma non si accoda ad una oligarchia che cerca, buttando a mare Mussolini, di salvare se stessa a spese degli italiani. (Duccio Galimberti).

Badoglio si barcamena. Tratta con gli angloamericani in segreto, proclama lealtà ai tedeschi in pubblico. Fino a firmare, nel 43, l’armistizio con gli Alleati. A quel punto i tedeschi sono ufficialmente nemici e si comportano da tali. Liberano Mussolini ed è la Repubblica di Salò.

Quella che noi oggi narriamo come la Resistenza. Come fosse una cosa chiara ed ordinata. E' un moto morale che si realizza in una grandissima confusione e caos. Italiani e tedeschi contro italiani ed alleati. Dramma e tormento non sono solo interiori. E' la guerra, in Italia, tra italiani.

Teresio Olivelli, fascista e militare. Sceglie la fedeltà al re per salvare l’onore della Patria e finisce in campo di prigionia. 8 tentativi di fuga. 3 riusciti. Fugge per mettersi a disposizione del CLN.
“Fuggiva per venire in Italia a fare qualcosa e farlo effettivamente. Per ricostruire questa Italia di cui portava dolorosamente nell’animo l’impressione di un grande miserabile, di una grande tradita dai suoi dirigenti”.
La resistenza militare è condotta soprattutto dai comunisti. E' il gruppo più numericamente presente e maggiormente organizzato. E quella militare è la parte di resistenza che più conosciamo. 

Ma resistenza non è solo resistere. Non è solo combattere.  E nemmeno solo sconfiggere i fascisti e cacciare i tedeschi. Si tratta di dare un nuovo assetto al Paese. Non c’è un piano condiviso. C’è chi ama combattere.  Chi non ha idee. Chi vuole la monarchia, chi vuole la repubblica. Chi pensa ad un’Italia schierata con l’Occidente e chi nell’orbita Sovietica.

Il vero mistero della Resistenza è come siamo riusciti ad uscire da quella fase e a ricostruire un Paese. Senza la guerra il fascismo sarebbe durato 50 anni. Senza la Resistenza non ci sarebbe stata la Costituzione. 

Come mai nei dopoguerra c’era una grande classe dirigente? Vuol dire che si erano preparati prima, durante la guerra.

La ricostruzione è stato il progetto comune. E’ stato la Costituzione. I costituenti avevano fatto la resistenza. Ne conoscevano tutte le magagne. Avevano il problema di scrivere, assieme, un progetto per gli italiani. Non c'erano più miti. Il primo risorgimento era stato consumato tutto dalla propaganda fascista.

C’è un momento di svolta nella assemblea costituente. E’ la  seduta del 9 settembre 1946.
Dossetti chiede: come facciamo noi, che siamo così diversi, a scrivere una costituzione assieme? C’è bisogno di un preambolo. Ma deve essere comune. E non c’è una ideologia comune.
Dossetti trova la chiave: Prendiamo coma base comune l’antifascismo. E stabiliamo che il fascismo è stato porre lo Stato davanti alla persona. Quindi noi scegliamo di mettere la persona davanti allo Stato.
Togliatti interviene: abbiamo idee diverse di cosa intendiamo per persona. Ma siamo d’accordo sul fatto che sia da anteporre allo Stato.

Era chiaro il riferimento al personalismo cristiano. Ma era patrimonio comune. E Togliatti ha potuto riconoscersi. Esempio di egemonia culturale. Teorizzata da Gramsci, praticata da Dossetti.  Da lì è nato un Paese che sta insieme. E sta assieme perché ha un progetto comune e una classe dirigente all’altezza. E ha (cattolici e non) una spinta spirituale. E chi l’ha detto che questo non conta nella storia? (Giovanni Bianchi) 

Formazione. Cultura. Coscienza di sé. Rispetto dell’altro. Libertà. Creatività.
E la scelta di un giusto nemico comune.
Forse l’Italia, allora, si è fatta così.

Ed oggi? 70 anni dopo?

Quale è la dittatura ed il conformismo cui dobbiamo contrapporci?
A cosa abbiamo bisogno di scegliere, oggi, tutti insieme, di mettere davanti la persona?


Un'organizzazione sociale. Un enzima capace di unire e trasformare.


Non è facile trovare la chiave giusta per intervenire qui oggi… perché sono stata tra coloro che hanno condiviso l’esperienza della presidenza nazionale negli ultimi 3 anni, assieme a Gianni ed Emiliano. E in modo diverso anche assieme a Roberto. Ma sono anche nata in provincia di Varese, sono socia di un circolo di Milano, sono delegata al congresso Nazionale ed oggi sono qui come ospite. E in più vivo stabilmente a Roma. Insomma… un’anomalia, un ibrido…

A partire da quel che sono, provo a dire qualcosa cercando di essere utile al dibattito…

I congressi. 
Stamattina mia madre, che ha 50 anni di esperienza in materia, ha detto “Ma in fondo cos’è un congresso? Un grande spreco di energia!”. Eh…guardiamoci in faccia, mica facile contestare questa affermazione!

Il cambiamento. 
Abbiamo bisogno di trasformazione. Abbiamo bisogno di cambiamento. In fondo i congressi sono un modo di gestire i cambiamenti. E il cambiamento come avviene? 
Ci vuole un’idea. 
Ci vuole una declinazione dell’idea (un programma, una linea... e quindi la partecipazione di tutti coloro che da diversi punti di vista possono portare un pezzo di sapere). 
E ci vuole di raccogliere, o meglio, di costruire le condizioni di consenso per realizzarlo.  

Stamattina Gianni diceva “abbiamo sistemato i conti, abbiamo messo in ordine cose che erano in disordine”. Ed io sono d’accordo con lui. E’ stato fatto. Ed era importante farlo. Quindi voi potete pensare che è tutto a posto? No! Ci resta da ridisegnare il modello complessivo di sostenibilità. Perché  siamo del tutto insostenibili. Ma, sia chiaro, non è che non è sostenibile la sede nazionale. Sarebbe troppo facile. Non siamo sostenibili tutti. Nel complesso.

La sostenibilità.  
Siamo insostenibili politicamente, associativamente, socialmente, economicamente, organizzativamente… La sostenibilità è una caratteristica multidimensionale (classicamente ambientale, economica e sociale. Per noi potremmo dire associativa, politica e imprenditoriale) che contiene e supera i concetti di crisi, crescita e sviluppo. E’ uso responsabile delle risorse (economiche e non, quindi pure l’energia, l’entusiasmo, la fiducia, la democrazia…) e capacità di rigenerarle. Ed ha come obiettivo una modalità di soddisfacimento delle esigenze presenti in grado di non compromettere le possibilità future.
Non possiamo fare a meno dei congressi. Vorrebbe dire fare a meno della democrazia. Ma è qui che sta la chiave per rispondere a mia mamma. Non è la quantità di energia impiegata il problema. E’ cosa produci. E se le energie che usi sono finite o rinnovabili. Se stai lavorando sul presente o sul futuro. Per te o per la comunità.
Oggi usiamo tantissime energie per questioni che riguardano noi stessi e che non producono. Questo è insostenibile.

Decentrarci da noi stessi.
E allora la prima idea del cambiamento, l’idea di trasformazione che ci serve, secondo me è uno spostamento, un decentramento. Ma, mi spiace deludere, non è uno spostamento da nazionale a territorio. E’ uno spostamento da dentro di noi a fuori di noi. Se non torniamo a indignarci, arrabbiarci, usare le energie per ciò che sta fuori di noi, non abbiamo futuro ed è davvero tutto uno spreco di energie…
Questa idea basta ad indirizzare il cambiamento? No, certo che no. Ma è la precondizione. Indispensabile, per tutto il resto.

La responsabilità.
Daniele Rocchetti ha citato Bohnoeffer. In questo periodo io mi aggrappo molto a Bonhoeffer. Aiuta a pensare, a trovare un senso nel quotidiano. Aiuta anche a ridimensionare. Va bene che per noi sono importanti, e va bene pure starci male e provare di tutto ma… alla fine stiamo sempre parlando solo delle Acli. E ci sono tragedie più grandi… 
Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene. Solo da questa domanda, storicamente responsabile, possono nascere soluzioni feconde, anche se provvisoriamente molto mortificanti”.
Per me il criterio per muoversi è questo. “Cosa permette maggiormente l’avvio di un processo futuro”. Processo necessariamente lento, e di cui i frutti sicuramente li raccoglieranno altri, non noi.
Il provvisorio è probabilmente mortificante. La dimensione della fecondità è riservata al tempo futuro. Ma il criterio è il seme della fecondità futura.

Una organizzazione sociale.
Vorrei dire una cosa sull’idea. Anche se capisco che oggi sembra fuori tema. Provo a farlo così…

Una volta c’era l’idea che valesse la pena di trovare un modo originale di tenere assieme capitale e lavoro. Tentando qualcosa che non fosse solo la delega al pubblico o ricerca di profitto e libertà di mercato. E’ ciò da cui in fondo è nata la cooperazione sociale, il terzo settore… Oggi, che ne è di quella idea? Ha ancora senso?
Una volta c’era l’idea che mettersi assieme tra persone fosse un valore. E che il mettersi in mezzo di coloro che si erano messi assieme fosse un valore. Valore per il singolo, per il governante e pure per la società nel suo insieme. E’ ciò di cui parliamo quando parliamo di corpi intermedi…
Oggi, che ne é di quella idea? Ha ancora senso?

Ecco, io credo che ci sia bisogno di tenere aperte queste due domande.
E credo che le Acli dovrebbero provare a farlo in modo nuovo, specifico ed originale.
Non dando due risposte separate. Da una parte l’associazione e il suo essere corpo intermedio. Dall’altra le imprese e il loro dare lavoro (dipendendo dal pubblico o stando sul mercato).  
Credo la sfida oggi sia tenere assieme le due cose. Essere una organizzazione sociale unica, di produzione e lavoro e di rappresentanza. Di innovazione sociale e coesione.
Dico organizzazione sociale. Perché ci manca il termine. Ma è sempre così per le cose nuove. Non esiste il termine, prima che nascano.

Un enzima capace di unire e trasformare.
Non credo si tratti di rappresentare i lavoratori, i poveri, gli ultimi o il ceto medio, oggi.
Oggi la sintesi di fedeltà a democrazia, lavoro e chiesa, il povero da rappresentare, è la tensione allo stare assieme di una società che oggi è liquida e domani potrebbe essere addirittura gassosa.  E’ l’idea del popolo come concetto collettivo in divenire.
Oggi intermediare non vuol dire essere un portavoce, né un contenitore. Vuol dire provare ad essere un enzima, un catalizzatore. Qualcosa capace di produrre i processi necessari a tenere assieme senza bloccare nello status quo, ma anzi attivando le trasformazioni sociali necessarie.
Per uscire dalla metafora, oggi la rappresentanza non è data dalla delega in bianco che qualcuno ci consegna dal basso o che qualcuno ci riconosce dall’alto. E’ data dalla capacità di stare in modo significativo, coerente e competente nelle comunità. Di attivare processi, di costruire legami, di individuare risorse e di immaginare modalità concrete di co-costruzione di risposte e soluzioni. E questo non è un mestiere separato da assegnare all’associazione mentre i servizi fanno altro. E’ un mestiere complessivo. Per l’organizzazione tutta. 


E’ l’idea che serve? E’ il nuovo grande compito possibile? Non lo so. Ma è un pezzetto di idea che metto lì, da aclista, per il dopo congresso. Perché possa eventualmente connettersi con altri pezzetti di un lavoro comune.

(E' ricostruito a posteriori, quindi non è fedele alla lettera. Questo è comunque il senso di ciò che ho detto al Congresso Acli Lombardia) 

L'arte del riformare

Le voci dei giorni/5 - L’arte del riformare è umile e miracoloso artigianato

di Luigino Bruni
pubblicato su Avvenire il 03/04/2016
Le storie delle comunità, delle organizzazioni, dei movimenti che sono stati capaci di vivere oltre la stagione dei fondatori, presentano alcune costanti: hanno avuto dei riformatori e hanno saputo raccontare storie nuove accanto a quelle fondative.
I riformatori consentono ad un carisma fondativo di restare vivo e fecondo, e alle comunità di tornare alle domande carismatiche originarie cambiando le risposte. Quando i riformatori non arrivano, o vengono osteggiati e non riconosciuti, le esperienze carismatiche e ideali inevitabilmente declinano per mancanza di presa sul presente, e quindi per carenza radicale di giovani e di ‘vocazioni’, dovuta all’incapacità di tradurre il primo messaggio e la prima esperienza. Una crisi spirituale e morale profonda colpisce i suoi membri più coinvolti e motivati: in una prima fase soffrono per l’assenza di giovani e di nuove vocazioni, poi diventano indifferenti e, infine, provano persino una certa gioia, perché la loro delusione li porta a non augurare a nessuno di ripetere la loro stessa triste esperienza esistenziale. Una crisi che si manifesta, quindi, come invecchiamento non-buono, che porta a leggere la vita come decadenza e declino. Quando e se nelle comunità carismatiche concrete emergono questi sintomi, è chiaro che c’è un urgente bisogno di una riforma.
Nella fase della fondazione, i carismi generano più semi di quelli che riescono a fiorire nella prima stagione, che sono destinati a germogliare in quelle successive, quando i primi semi saranno invecchiati. Le potenzialità di un carisma sono maggiori di quelle che riescono a manifestarsi nella fondazione. Ci sono vene profonde che non affiorano subito, pur essendo legate alla stessa sorgente, destinate ad emergere durante le siccità o dopo i terremoti. Le povertà concrete, amate e abbracciate dalla Chiesa nel corso dei suoi due millenni, sono state molte più di quelle amate e abbracciate da Gesù di Nazareth e dai suoi discepoli. I poveri di Madre Teresa, di Francesca Cabrini, di Don Oreste Benzi, di Frei Hans, non sono quelli della Palestina di Pilato: questi nuovi carismi hanno fatto, in nome di Gesù Cristo, per le povertà “cose più grandi” di quelle compiute dallo stesso Gesù e dalla sua comunità storica. Un processo analogo si ripete per ogni singolo carisma, che nel corso del suo sviluppo scopre dimensioni che non erano emerse durante la vita storica del fondatore. Il fondatore crea la comunità-movimento tramite un processo di scoperta del carisma, che gli si rivela progressivamente e durante la sua intera esistenza. Più difficile è prendere coscienza, nella comunità fondata, che questa scoperta progressiva del carisma continua anche dopo la prima fondazione, e che quando si interrompe o viene interrotta è il primo carisma che diventa sterile.
Qualche volta è il Francesco storico che capisce che la Chiesa da ricostruire non è la chiesetta di San Damiano; altre volte è lo spirito di Francesco vivo tra i francescani che lo capisce e lo fa. È il Francesco dopo Francesco che porta a compimento la fondazione di Francesco di Bernardone. Quando invece il processo di fondazione si blocca con la prima generazione, perché lo si considera completo e definitivo con la morte del fondatore, si impedisce al carisma di maturare e rivelarsi in pienezza, di illuminare e spiegare anche fatti e eventi della generazione fondativa. Come accade nelle nostre case, quando alcune mele poste in mezzo ai kiwi li fanno maturare. Il Francesco che continua a vivere dopo di lui, serve, in una misteriosa ma reale solidarietà inter-temporale, anche il primo Francesco. Sapremmo meno del suo carisma senza Bonaventura o Bernardino da Siena. I primi beneficiari del coraggio dei riformatori sono i fondatori, che riescono a dire cose nuove e a volte diverse grazie a chi li ha liberati dai limiti del loro tempo storico. I riformatori fanno rotolare le pietre dai ‘sepolcri’ dei loro fondatori. Vengono ‘risorti’ dai loro sepolcri. Le vere riforme non sono soltanto una attualizzazione del carisma: sono una continuazione della prima fondazione, con frutti e miracoli diversi ma non meno meravigliosi. I secondi ‘miracoli’ sono essenziali per svelare i primi.
Perché, allora, le riforme, così preziose, sono rare e sempre molto dolorose? 
Le prime novità carismatiche, per poter sopravvivere nel tempo in cui sono nate (tutte le società hanno la tendenza ad uccidere i profeti che potrebbero salvarle), hanno dovuto operare una sorta di ibridazione tra nuovo e vecchio, per impedire che il vecchio rigettasse e soffocasse il nuovo. Così, attorno ai primi buoni arbusti, la prima generazione sviluppa naturalmente una vegetazione ancillare a protezione delle tenere nuove pianticelle, che consente loro di fiorire all’ombra di altre piante più robuste e resistenti alle intemperie. Le intuizioni carismatiche si circondano così di tutta una boscaglia sussidiaria; si rivestono di infrastrutture, linguaggi, regole scritte e non scritte, a volte auto-prodotte altre volte ereditate dalla tradizione o dal contesto storico specifico. Questa ibridazione – che è un processo diverso e parallelo alla produzione ideologica che accompagna lo sviluppo di un ideale, di cui abbiamo già parlato su queste pagine -, ad un certo punto diventa una camicia di forza, che blocca la crescita e chiude il futuro. Le riforme arrivano per allentare e, nei casi più felici, spezzare il rivestimento iniziale divenuto progressivamente camicia di forza, lo scudo protettivo che si è trasformato in una rigida corazza d’acciaio.
La difficoltà estrema dell’operazione di liberazione consiste nella difficoltà di distinguere la camicia di forza dalla ‘persona’ che la indossa. Nelle comunità carismatiche più grandi e ricche, l’ibridazione tra vecchio e nuovo è stata profonda e si è protratta per molti anni, e così pezzi di corazza sono entrati nella carne, e la pelle ha rivestito parti dell’armatura. Il primo luogo che racchiude la compenetrazione di vecchio e nuovo è la stessa regola scritta e lasciata dal fondatore ai suoi eredi, dove convivono elementi di novità e altri di rivestimento, una coesistenza di cui non è consapevole, se non in minima parte, lo stesso fondatore.
Le riforme, allora, sono dolorose perché togliendo la corazza, con essa viene sempre via anche qualche brandello di pelle. Da qui allora la tendenza, quasi invincibile, delle comunità a rigettare i riformatori di cui avrebbero un bisogno vitale. L’esigenza naturale e necessaria di proteggere e salvare il carisma finisce per bloccare i tentativi di riforma. In nome della purezza del carisma, lo si condanna alla sterilità. La purezza si trasforma in purismo infecondo, per non aver avuto coraggio carismatico sufficiente per strappare qualche lembo di pelle, una ferita da cui sarebbe passata la sola salvezza possibile.
Ogni traduzione è anche un tradimento, e la paura del tradimento non deve impedire la riuscita della traduzione. Perché senza traduzione le splendide poesie dei carismi restano incomprensibili a chi vorrebbe ascoltarle ma parla e capisce un’altra lingua.
Ci sono molte esperienze ideali e carismatiche che oggi sarebbero ancora vive e/o feconde se fossero state capaci di generare una riforma dal dolore di una ferita. 

Le riforme riescono troppo raramente perché vengono soffocati i riformatori autentici o perché vengono ascoltati i falsi profeti – o entrambe le cose. Anche perché i riformatori saggi e i falsi profeti si assomigliano molto, troppo. E quando i riformatori sono troppo semplici da individuare sono quasi sempre falsi riformatori. Il primo criterio per riconoscere un riformatore è il suo non presentarsi alla comunità come tale. Occorre sempre diffidare dei riformatori che si auto-attribuiscono questo titolo, e si presentano al popolo come ‘riformatori per vocazione’. La prima arte dei riformatori è quella dell’artigiano: sanno raccogliere le pietre di ieri, a volte anche le macerie, e con queste edificarci, con umiltà e speranza, una nuova san Damiano: più piccola dell’antico tempio, dove però si può riascoltare nel silenzio umile la prima voce, e qualche volta reimparare a pregare.
Quando i processi di riforma hanno successo, le comunità vivono una autentica resurrezione, e poi una pentecoste. Le diverse lingue si comprendono tra di loro, e ci si ritrova con nuove storie da raccontare. Le riforme sono anche una nuova evangelizzazione, il dono di buone novelle da narrare e narrarci gli uni gli altri. Alle prime storie fondative se ne affiancano nuove, che fanno rivivere e ricantare le prime. La crisi è sempre una carestia di storie capaci di co-muoverci, di farci muovere dentro e insieme. Le riforme ripopolano le comunità e il mondo con nuove storie: morti che risorgono, ciechi che vedono, acque tramutate in vino, poveri che diventano cittadini di un regno diverso.

Da Lesbo in poi...




Sabato a Milano Ipsia ha tenuto la sua assemblea ed in una lettera alla Direzione Nazionale Acli ha detto che quello sarebbe stato il suo modo di dare un contributo al congresso. 


Una trentina di persone da vari posti di Italia. Ordine sparso, in una sala grande. Un proiettore, una mappa, il racconto in presenza di km in macchina per percorrere controcorrente la Balkan Route e una voce di ragazza sve in collegamento skype per dire di Lesbo. Una pagina Facebook per illustrare linee di produzione in Africa e ragazzi che cucinano nelle scuole Enaip. 


Un dibattito fatto di cose così...

Cosa possiamo fare noi, concretamente? Quindi la prossima rotta sarà o no l'Albania? Mandare volontari oggi serve o fa casino per essere alla moda? Possiamo organizzare presentazioni nelle scuole? Raccogliere soldi, serve sempre. I progetti di emergenza non reggono i tempi dell'emergenza, la realtà va più veloce delle varianti... 
Ma anche....
Dopo gli obiettivi del millennio? Come facciamo ad incidere sulle posizioni dell'Italia a livello internazionale? Come si fa lobby popolare sui grandi temi in Europa? C'è un modo per arrivare ai tavoli decisionali? Qualcuno di voi ha preso contatto con gli sprar della vostra zona? Ma esattamente cosa c'è nell'accordo tra Turchia ed Europa? Il corso di geopolitica meglio alto per pochi o base per tanti? Perchè Salvini riesce a raggiungere convincere le persone più di noi? 
Domande e tentativi pratici di risposte. 

Poi la bozza di un bilancio di missione. Di tutta Ipsia. Nazionale e sedi in Italia e all'estero. Cose fatte, persone raggiunte, risultati, cifre oggettive. Dati che ci sono e dati che mancano. Confronto tra anni. Scelta di indicatori. Domande, risposte. Parti di orgoglio e margini di miglioramento. In votazione. Su le mani, approvato. 


Da tutto questo si riesce a tirar fuori una cosa scritta da far girare? si, no, forse... in tempo per il congresso?... mah...

Ragionare tra persone, di fatti concreti e piccole e grandi idee. 

Sperimentazione, partecipazione, trasparenza, rendicontazione.

Democrazia. Informale. Regolare. 

Per saperne di più: 

- Silvia Maraone sulla Balkan Route 
- Giulia sve IPSIA su Lesbo 
- Pagina facebook IPSIA
- Pagina Facebook Alimentare lo sviluppo

Cosa vuol dire pensare?- Marianella Sclavi

Uno degli strumenti che ci viene rifilato più di frequente oggi è il sondaggio di opinione. La sanità, la riforma… chiamo individualmente un...