Sintesi arbitraria, parziale, intrecciata, di due gruppi di lavoro (A3 e B3) in AcliBose2017
Luisa (Como), Gisella (Ivrea),
Liliana (Torino), Marco (Padova), Emanuela (Padova),
Francesco (Levanto), Francesco (Trento), Riccardo (Trieste), Loretta
(Brescia), Adriana (Gallarate), Serena (Como), Adriano (Gallarate),
Giovanni (Cuneo), Rodolfo (Lodi), Fabio (Trieste), Paolo (Varese), Graziella
(Vicenza), Scilla (Nazionale), Paola (Nazionale).
Le Acli. Le Acli
erano figlie di una società di massa. Che dava una delega, a tratti anche
spinta, alle Acli su molti temi. Oggi la delega non c’è più. Va reinventato un
compito. Andandoselo a prendere. Non aspettando che qualcuno ce lo assegni. La consapevolezza di essere molto in crisi non ci esime dalla responsabilità di sapere che c'è molto da fare.
Tra
i partecipanti in più d’uno hanno detto: “In
questi giorni ho conosciuto Acli come finestra sul mondo. Politico, sociale e
spirituale”. Come fare in modo che le Acli siano sempre più un po’ così,
nel quotidiano? Così, nel senso di finestre sul mondo. Così, nel senso di
luoghi aperti e in cui ti viene voglia di invitare anche un’amica, un
conoscente, un non aclista…
Lavoro. C’è una linea di demarcazione
nel mondo del lavoro oggi. C’è un dentro ed un fuori. Il sindacato ha per lo
più scelto di difendere chi c’è dentro. C’è bisogno di ragionare assieme a chi
è fuori. E a chi è sul crinale tra dentro e fuori.
Cambiare
l’idea di lavoro. Riconoscere tutti i tipi di lavoro. Tutti gli impegni. Non
legare il concetto di lavoro alla sola funzione retributiva in senso economico.
Il lavoro svolge molte più funzioni. L’assenza di lavoro lascia scoperti molti
più aspetti. Per questo non bastano sussidi per la povertà.
La
prima battaglia è fare in modo che il “non c’è bisogno di te” che oggi il mondo
del lavoro dice a molti, non deve diventare un “non c’è bisogno di te”
assoluto. Alla persona in quanto tale.
Non
si può pensare di non toccare nulla di ciò sul lavoro. Non si può pensare di lavorare
solo sul marginale. Perché ci sia spazio per tutti, qualcuno deve rinunciare a
qualcosa. Lavorare meno, lavorare tutti. Smettere di pensare al lavoro come ad
un bene infinito e sempre disponibile. Pensarlo come un bene comune, finito,
nel senso di limitato.
Il
lavoro dovrà anche essere inventato. Per inventare serve fantasia e sicurezza
di sé. Più cresce il disagio sociale meno c’è fantasia e capacità di creare,
sperimentare, sbagliare, apprendere, crescere.
Welfare. Gli strumenti di oggi, la
tecnologia, possono aprire prospettive eccezionali, per le situazioni di
solitudine, di abbandono. Hanno enormi potenzialità che vanno sfruttate. Non
delegando alla macchina. Ma usando la tecnologia. Il possesso delle
“piattaforme” tecnologiche è uno snodo di potere cruciale per determinare
accesso, uso, stile e finalità dei servizi. Nonché per determinare se il
profitto sarà collettivo o individuale. E per definire di chi sarà il possesso
dei dati (ulteriore risorsa). Cosa ci impedisce di creare piattaforme di
condivisione di proprietà sociale e condivisa?
C’erano
luoghi che erano comunità. Adesso spesso sono diventati luoghi di prestazione
simultanea di servizi individuali. Che hanno perso il vantaggio dell’essere
comunità. E che, siccome sono pensati per un soggetto astratto che rappresenta
“la presunta normalità”, hanno mantenuto il limite di non essere realmente
adatti a nessuno. E il limite di non cambiare con sufficiente velocità,
rispetto ai cambiamenti del vivere. La loro attuale inefficienza (associata
alla crisi economica) porta al rischio di perderli del tutto e di rifugiarsi in
soli spazi e luoghi di servizi individuali, disuguali, divisi per casta, senza più
condivisione né di luoghi, né di tempi, né di mezzi. E senza incontro con
l’altro.
Discernimento. Le informazioni sono
moltissime, ne siamo sommersi. Sia di “bufale”, che di cose preziose (in
precedenza meno accessibili). Educare le persone all’uso delle tecnologie non
significa solo addestrare tecnicamente alle funzionalità del mezzo. Non
significa nemmeno solo presentare le possibili derive nell’uso del mezzo.
Significa, in primo luogo, educare alla capacità di approfondimento, di
pensiero, di riflessione e di discernimento. Di questo c’è bisogno. E questo
sarebbe un nostro mestiere.
Oggi
c’è una mistificazione della contrapposizione. Giovani/vecchi, reale/virtuale, casta/popolo…
Sembra di non poter usare più altro meccanismo di comprensione se non quello
della contrapposizione tra due assoluti. Con militanti/tifosi contrapposti. La
vita è piena di toni di grigio. E i percorsi reali sono fatti di linee non
rette. E’ su quello che, principalmente, si può lavorare. Se sono chiari i
punti di riferimento. Senza punti di riferimento si vaga a vuoto.
Vita cristiana. La vita cristiana, come
questo momento a Bose, non è fare il momento di preghiera prima delle riunioni,
non è solo leggere e approfondire la
Bibbia ed il Vangelo. E’ offrirci
degli spazi e dei tempi per andare a cercare nella Parola i riferimenti su cui
basare il discernimento. E farlo in modo aperto e dialogico. Anche
multidisciplinare e multi linguaggio. A stretto contatto con la vita che
viviamo. E non da soli.
Relazione e Comunicazione. Comunicazione
e relazione non sono sinonimi. Costruire relazioni (alleanze) è molto più che
comunicare. Non è questione di strumenti o ambiti. Non è questione di online e
offline. La mamma che parla via skype con la figlia lontana sta custodendo una relazione.
Il volantino appeso in bacheca (che sia fisica, nel circolo, o virtuale, su
facebook) non è di per sé relazione. E’ un tentativo (non si sa se riuscito o
meno) di comunicazione. La comunicazione è anche molti a molti. La relazione
tiene conto del contesto in cui si svolge ma è uno ad uno. Viviamo il rischio
di voler prendere scorciatoie per avere “i molti”, disinteressandoci dell’uno e
facendo confusione tra relazione, comunicazione e connessione. E’ un rischio
presente nel reale come nel virtuale. Non tutte le relazioni sono positive. Ma
solo dalla relazione passa l’opportunità di costruire un’alleanza.
La relazione allo sportello. La
perdita della capacità di costruire relazione c’è in tutti i campi. Non
attraversa solo il confine online/offline. Chi fa sportello si trova a
rapportarsi con l’altro come ad una pratica. Ingabbiata dal ruolo e dal tempo.
Lo sportello è già oggi spesso il luogo di una alleanza mancata. Ma oggi era
ancora spesso il luogo di un incontro.
Oggi
con le trasformazioni del Patronato che stiamo vivendo, stiamo trasformando una
relazioni gratuita in una relazione commerciale. Prendere atto del fatto che
non potevamo permettercela, questa gratuità, è un dato di realtà. Ma come questo
farà cambiare gli incontri che faremo? Come cambieranno le persone che si
rivolgono a noi? Chi perderemo per strada? E dove andranno? Ci stiamo ponendo
queste domande?
La relazione di aiuto. Anche
gli interventi di aiuto caritatevole o professionale (sussidio, distribuzioni
alimentari, etc…) rischiano facilmente di togliere dignità, di non restituire
possibilità. Come possiamo ripensare creativamente ai modi e stili di aiuto, perché
possano essere alleanze e non sottomissioni? La chiave deve tornare ad essere
la centralità del lavoro e della persona. Della sua capacità di comprendere e di
fare, anche da sola. Se io mi sostituisco all’altro non lo libero. Lo aiuto ma
lo mantengo in posizione di minorità. Vale per gli sportelli e per i sussidi.
Lavoro,
welfare, comunicazione e persino vita cristiana, rischiano di essere tutti fronti di
scontro generazionale.
La
rete non è un nemico. E’ anche quello un luogo da abitare. E dobbiamo svegliarci e abitarlo bene. Come
Acli. Perché è il luogo in cui possiamo aprire confronti sui nostri temi, sul
tema del lavoro, dei diritti. La rete è anche il luogo dove possiamo provare a
parlare con quelli che non la pensano già come noi. Non è facile. Ma quella è
la sfida.