Una esplorazione antropologica: Amalia Signorelli a Pietralata



Pietralata: la lotta per la casa
Nata come borgata, anni 30. Sud est Roma. Vicino a Tiburtina. 
Popolazione della borgata era 20.000 abitanti. 
Forte identità locale.

La rivendicazione del controllo su un territorio viene legittimata producendo quel territorio in patria. Talvolta appellandosi a continuità insediativa accertata. Tal’altra anche senza. 

Localismo. Fondamentalismo. 
L’appartenenza al gruppo è sempre frutto di radici. 
Localismo di borgata. 

Anche quando partecipava a manifestazioni per il diritto alla casa a Roma, 
partecipava in quanto Pietralata.
Da dove nasceva questo senso così forte di identità locale? 

Anni 30, Mussolini, 
obiettivo urbanistico: rinnovamento urbano della città, ristabilire “sui colli fatali” l’antica capitale imperiale
obiettivo ideologico: consolidare idea di regime realizzatore provvidenziale di ordine, pace e prosperità all’interno, di conquistatore all’estero. 

Strategie di Mussolini:
Stabilire analogie sistematiche tra ere fasciste e epoca imperiale romana di Augusto. 
Repertorio di romanità recuperato e riproposto (imposto)fu molto vasto. 
Riportare alla luce alcuni monumenti di epoca classica. (a prezzo della demolizione di buona parte della Roma medievale). 
Creazione di ampie vie centrali (a prezzo di demolizione delle vecchie abitazioni che costituivano il centro storico romano e della espulsione di coloro che vi abitavano. Del proletariato romano). 

Chi è stato espulso? 
Roma non aveva proletariato industriale. 
Il proletariato era composto da manovali, muratori, operai dei trasporti e servizi. 
Piccoli lavoratori indipendenti, artigiani e commercianti. 
Privo della tradizione socialista, il proletariato romano costituiva comunque una realtà potenzialmente e spesso esplicitamente ostile al regime. 
Quindi: 
espulsione del proletariato non fu effetto collaterale ma obiettivo ulteriore: neutralizzare, mettendolo da parte, un gruppo ostile e potenzialmente pericoloso. 




Cosa fu questo spostamento? 
L’espulsione non si limitò a reinserimento in altro quartiere in periferia. 
Fu qualcosa che alcuni autori chiamarono deportazione. 
Fu la creazione delle borgate. 

Cosa furono le borgate?
Le borgate non erano città satelliti. 
Non erano quartieri periferici. 
Non erano villaggi rurali. 
Erano dormitori, bidonville disperse nella campagna romana. 
A diversi chilometri, non solo dal centro, ma anche dall’ultima casa della periferia. 

Dal 1934 al 1939 se ne costituiscono una decina. 
Tutte poste a qualche centinaio di metri da una delle grandi strade consolari. 
Quasi sempre nelle vallate. Sotto il piano della campagna e con acqua semi stagnante, la cosidetta marana. In questo modo, benchè tutte si potessero raggiungere con una strada statale, la borgata stessa, essendo nascosta nella vallata, era invisibile per chi passava sulla strada. 

Le borgate erano costituite da baracche di due o tre tipi differenti. 
Le più semplici privi di pavimenti, con muri di pannelli pressati e un tetto in lamiera, senza solaio. 
Le più belle erano in muratura, con pavimento e solaio. 
Alloggi unifamiliari. Senza servizi igienici. Di un solo vano con cucina o di due vani per le famiglie più numerose. 

I servizi igienici erano collettivi, collocate in apposite baracchette, distribuite in numero di una ogni tre, cinque alloggi. Prive, fino alla fine della guerra, non solo di strutture collettive di quasi tutti i servizi sociali, ma nel corso dei primi anni anche prive di fogne e di linee regolari di autobus che le collegassero a Roma. 

Le borgate non erano campi di concentramento unicamente perché non erano recintate. 

Nessuno sarebbe andato ad abitare di propria iniziativa in un posto del genere. 
Infatti l’evacuazione si fece grazie all’ordine generalizzato di espulsione per causa di pubblica utilità. E se la gente non se ne andava (e spesso non lo faceva) l’ordine di espulsione offriva la copertura legale per fare intervenire la polizia e la milizia fascista. 

Non solo la tradizione orale, anche gli archivi di Stato testimoniano che le case furono svuotate più volte e le persone e i mobili caricati sui camion sotto la minaccia dei fucili (Insolera, 1962). 

Questa è anche l’origine di Pietralata, presso cava di pietre da costruzione, in disuso. 
Al km 6 di via tiburtina. 

Che esperienza fu per chi si spostò?
Perdere la propria casa, il proprio quartiere, la propria città. 
Per molti perdere il proprio lavoro. 
Rottura dei rapporti di vicinato (perché gli abitanti di ciascuna zona furono dispersi in più borgate). 
Le interviste raccontano di crisi culturale radicale, marasma nel quale rimane un sentimento di collera, di ribellione impotente a fronte di violenza subita e odio profondo per chi l’aveva provocata e inflitta.

Saranno necessari diversi anni e un avvenimento come la guerra, perché l’antifascismo viscerale degli abitanti delle borgate si trasformi in coscienza politica. 

Primi crisi culturale: rapporto con lo spazio. 
Primo bisogno: rielaborare completamente la mappa mentale. 

Benchè siano state abitate per 15, spesso 20, 25 anni, mai nessuno considerava quelle baracche, casa. 
“E queste tu le chiami case?”
“Sono case quelle cose lì?”
“Mica siamo bestie per sentirci a casa nostra in una stalla”.
Questo rifiuto totale di considerare casa un posto in cui si è passato un terzo della vita, a volte metà, dove forse si è nati, potrebbe trovare spiegazione nella pessima qualità delle baracche. Tuttavia, dal punto di vista dello spazio agibile e della qualità dei servizi, come pure della salubrità, le vecchie case del centro storico non avevano standard molto migliori.
Credo che il netto rifiuto di considerare le baracche come case, sia da ricondurre al valore simbolico delle baracche stesse, più ancora che alla loro disfunzionalità. 
Per gli abitanti di Pietralata, la casa precedente, modesta come era, era comunque un bene scelto in piena autonomia, secondo una decisione orientata da un progetto. Anche se nei limiti delle risorse finanziare disponibili, la vecchia casa del centro storico era stata scelta propri o perchè rispondeva meglio di un’altra ai bisogni degli occupanti. In definitiva aveva i requisiti che avevano indotto gli occupanti a sceglierla tra un insieme di abitazioni simili, ma nessuna identica all’altra. Né la situazione aveva caratteri diversi quando era stata ricevuta in eredità. 

Nella città il mercato degli alloggi dei poveri ha comunque una sua dinamica e in conclusione chi accede a quel mercato ha qualche opportunità, più o meno modesta, più o meno illusoria, di operare scelte e dunque di trovare conferme alla propria identità e propria libertà. 

Essere stati forzatamente sbattuti dentro una baracca voleva dire 
aver perso libertà, 
aver perso la possibilità di scegliere e di decidere, 
aver perso la dignità. 
Il rischio di ridursi “come le bestie” non era meno grave da questo punto di vista che da quello dell’igiene e della promiscuità. 

Il tenace rifiuto a riconoscersi, ad accettarsi come abitanti di quelle che per venti anni hanno continuato a chiamare stalle è stato probabilmente per i pietralatesi l’elemento di continuità culturale che ha permesso loro di non perdere la memoria della vecchia maniera di abitare. 
A partire da questa memoria, di progettarne una nuova. 

Non è un caso che la lotta per avere di nuovo una casa sarà il grande accadimento nel corso del quale si costruirà la nuova coscienza collettiva locale degli abitanti di Pietralata. 

Il rapporto con il quartiere è stato profondamente modificato dalla deportazione. 

L’isolamento esterno e il livello sociale interno non sembra producessero tensioni e atomizzazione sociale come altrove (Giglia). 

L’identificazione tra la borgata e il gruppo che vi abitava
Nei racconti degli interlocutori sembra essere stata “da sempre” forte sia l’identificazione tra la borgata e il gruppo che vi abitava, sia il senso di appartenenza dell’individuo al gruppo e al luogo. Con tutta l’ambivalenza di odio/amore che il luogo suscita. 

Probabilmente l’origine drammatica, violenta, della borgata ha plasmato fin dall’inizio l’identità collettiva di un “noi” che è anche un “qui” opposto ad un “loro” che è anche un “fuori di qui”. Poiché il noi si è costituito nel corso di un evento-nello-spazio, un evento che ha messo in discussione l’assetto dello spazio, il “noi” e il “loro” si sono costituiti come soggetti-sociali-nello-spazio. L’altro sociale è sempre anche un altro spaziale. 

Buona parte delle persone sono convinte di essere considerate dagli altri come “diverse” in quanto abitanti della borgata. Al tempo stesso, e ad onta di ripetute denunce e scomodità, pochissime persone hanno espresso il desiderio di andare a vivere altrove. La maggioranza era attenta a dichiarare che non avrebbe voluto andarsene. 

Il rapporto tra la borgata e la città
Pietralata è una parte della città. 

La borgata non offriva e non offre mezzi di sussistenza. 
Non c’era lavoro urbano. La terra o era già occupata o non era coltivabile. 
La ricerca del lavoro gravitava sulla città. 
Per gli uomini: costruzioni. 
Per le donne: pulizie. 
Dove lavori? A Roma.
Dove? Oggi qui, domani là. 

In città si reperiva assistenza amministrativa e di beneficienza. 
In città si andava a cercare lavoro, soldi, cibo
Non si restava in città come soggetti integrati in essa. 
Il rapporto con la città era tanto necessario quanto precario. 

“Sai perché le borgate sono state costruite sotto la strada? Nelle vallate? Perché loro non ci devono vedere, noi dobbiamo sparire, non si deve neanche sapere dove si trovano le borgate”. 

La borgata e l’identità di cittadini
L’odio nei confronti del regime fascista e la forte struttura dei legami di vicinato fecero si che la borgata partecipasse alla resistenza.

Conclusa la guerra, la lotta per la casa fu l’impegno attorno al quale si rinsaldarono i legami già costruiti tra la borgata e l’organizzazione politica. E molti nuovi se ne crearono. 

Il PCI, attraverso la presenza capillare di funzionari e attivisti, iniziò un lavoro che non mi pare esagerato chiamare di educazione, una pedagogia che trasformò i potenziali banditi sociali della borgata carichi di odio e di senso di rivalsa.Li trasformò in chi? Forse non tanto in comunisti, come al partito e a loro stessi piaceva dire, quanto in cittadini.

All’epoca della nostra ricerca, anni 80, l’insegnamento del partito sembrava sedimentato in alcuni principi fondamentali profondamente interiorizzati da tutti gli abitanti di Pietralata: 
-      le case sono un bene al quale si ha diritto, non un obolo più o meno generoso concesso ai poveri dai potenti, di conseguenza vanno domandate al potere pubblico, al comune, allo stato. 
-      Se ci si organizza in modo da trasformare la domanda individuale in una rivendicazione collettiva, questa avrà maggior forza, non potrà essere ignorata o trascurata facilmente. 

Diritto alla casa fu il periodo connotato come “lotta per la casa”. 
E i termine lotta non fu una amplificazione retorica. 

L’esperienza della lotta per la casa
Alla fine degli anni 70 Pietralata fu interamente ricostruita. A opera degli istituti di edilizia economica e popolare. Baracche sparite. Ogni famiglia aveva “avuto la casa”. 

L’esperienza aveva insegnato che “la lotta paga”.  Che dà risultati concreti. 
La lotta era lo strumento grazie al quale si era acquisito un bene, la casa, uno status, abitante di casa civile, identità sociale e politica riconosciuta in tutta la città, militante comunista di borgata. 
La lotta dà il potere e la lotta dà l’identità. 
“Se non lotti non sei nessuno”. 

Le lotte per la casa sono state un’esperienza decisiva, fondamentale, ma anche molto chiara e lineare, quasi un percorso classico della formazione della coscienza collettiva. I marginali, gli isolati, scoprono la forza dell’organizzazione, la forza della domanda che ha una dimensione collettiva. Scoprono che il possesso della forza dà loro diritti all’identità. Scoprono che se sono determinati saranno rispettati.

“Se vuoi ottenere qualcosa je devi fa paura”. 

La ferma opposizione noi/loro alimentata dall’isolamento e dall’omogeneità sociale originaria della borgata ha avuto all’inizio una funzione difensiva dell’identità, una funzione di fatto rassicurante e protettrice. 
Essa ha cambiato significato con la lotta ed è diventata aggressiva. 
Il “noi/loro” non più l’orizzonte culturale che consente di uscire dalle vallate per entrare nella città. Il noi/loro diventa noi contro loro. 
I valori sono antagonismo e aggressività verso l’esterno. 
Solidarietà e lealtà verso l’interno. 

La conflittualità latente o manifesta è sperimentata come una dato costante di vita diventa un carattere del mondo: un carattere del resto, tutt’altro che negativo, perché è veramente a causa del conflitto che gli abitanti delle borgate entrano nella storia. 

Al di sopra di tutti i valori, il valore supremo è il partito, l’entità che ha permesso che tutto questo si realizzasse. Ma alla devozione al partito va unito un senso della identità collettiva. 

La violenza e l’efficacia delle lotte per la casa hanno guadagnato alla borgata una reputazione di dura, dapprima tra i militanti del PCI romano, poi in tutta la città, infine a livello nazionale. Quando le vicende delle donne di Pietralata, impegnate ancor più degli uomini, nelle lotte per la casa, ispirarono un film, L’onorevole Angelina, di cui fu protagonista Anna Magnani. “Ci anno dovuto fa’ il film, capisci, per quanto era il casino che je facevamo!”. 

Nello stesso orizzonte di autostima e di orgoglioso ma tollerante riconoscimento del proprio ruolo di leader si iscrive il rapporto che si è creato tra i pietralatesi e gli immigrati provenienti dalle regioni dell’Italia centrale e meridionale. “Sono burini, perché burini sono nati e non possono cambiare. Però sono bravi, per la casa hanno lottato con noi, per la lotta so come noi”. Un ruolo cruciale l’abbia svolto il bisogno comune a tutti di una csa. E la capacità del PCI di gestire l’opposizione “noi senza casa/loro che devono darcela” in modo da farne terreno di identificazione di interessi comuni e nemici comuni in modo da rendere questa contrapposizione egemonica rispetto all’altra opposizione romani/burini. 

La tappa successiva sembro conseguente: nel 1976 il PCI vinse le elezioni amministrative. Questo vuol dire che finalmente la città era loro? I processi non sono così lineari e gli accadimenti umani non sono così logici. 

La situazione che trovammo a Pietralata nel 80 sembrava presentare più contraddizioni che continuità rispetto al passato. La borgata non somigliava a quella degli anni 30. 
-      alloggi popolari di costruzione recente standard elevati di spazi, accessori, rifiniture
-      alloggi popolari vecchi, oggetto di manutenzione da 
-      struttura di occupazione non cambiata, ma categoria dei dipendenti pubblici era maggioritaria, rispetto a edili, muratori, manovali, operai. 
-      Modello di consumo era misto di tradizione e consumismo
Seconda metà anni 70 diminuita partecipaizone a vita pubblica di quartiere. 
PCI raccoglieva maggioranza di voti ma sembrava meno capace (o meno preoccupato) di mobilitare, riunire, organizzare la popolazione come in passato. 
Indebolito l’interesse della popolazione per la borgata, in particolare per la possibilità di renderla migliore. Domanda di nuove strutture era costante ma generica. La partecipazione dei cittadini alla gestione delle strutture e dei servizi era garantita sempre dalle stesse persone, attivisti delegati del PCI e in minoranza di altri partiti, mentre la maggioranza si disinteressava o faceva presenza passiva. 

Oggi (metà 90) in linea con territori nazionale: 
-      primi segni di depoliticizzazione
-      ritorno al privato 

Il passaggio dal ruolo degli antagonisti che rivendicano il controllo delle risorse a quello dei gestori delle risorse può anche essere stato frustrante, non per ragioni emotive o simboliche, ma perché in concreto il secondo ruolo comportò una perdita di potere rispetto al primo. 
Quando avevano partecipato alle lotte, ognuno individualmente era stato protagonista e uguale agli altri, anche essi protagonisti. La gestione delle risorse ottenute sia per la struttura dei ruoli che per le conoscenze che esige obbliga un gran numero di partecipanti a delegare la propria partecipazione e le proprie decisioni. E’ qui che va cercata e non in una attardata persistenza dell’ideologia della lotta, la radice del malessere percepibile in borgata.

Gli strumenti del potere antagonista, della resistenza passiva a quella attiva, della violenza, erano posseduti e conosciuti da ognuno e non potevano essere usati senza la partecipazione di tutti. Gli strumenti del nuovo potere apparivano sfuggenti, incomprensibili, riservati ai pochi. Coloro i quali controllavano questi nuovi poteri e ai quali era necessario delegare non erano sempre amati, perché il risentimento per la situazione di esclusione si riversava su di essi. 

Una seconda circostanza che generava disagio era la poca visibilità dei nuovi obiettivi. Le lotte per la casa tendevano al soddisfacimento di un bisogno esplicito, cosciente. Il paragone con altri portava alla coscienza che era bisogno di tutti e offriva elementi di conoscenza per prefigurare la soddisfazione del bisogno. Si sapeva come lottare, si sapeva perché si lottava. 

Un centro sociale, un centro culturale polivalente o una diversa qualità della vita sono un’altra cosa. I bisogni ai quali avrebbero dovuto rispondere erano in gran parte latenti a causa di esperienze concrete che ne avessero fatto maturare la coscienza. Nella misura in cui i bisogni diventavano coscienti trovavano soddisfazione grazie all’acquisto di beni di consumo sul mercato primario. 

Lottare per la casa significava lottare per un bene concreto, visibile, tangibile, il cui godimento sarebbe stato uguale per tutti, continuo ed organizzato su basi famigliari. Gli strumenti che migliorano il quartiere spesso non offrono beni ma servizi. Non servono tutti in modo omogenea, avrebbero u pubblico differente e selezionato per fasce di età. 

Il riconoscimento di una natura collettiva di bisogni può nascere solo da una attitudine culturale che non valorizzi il vantaggio immediato, che provveda a programmare il futuro, che valorizzi l’investimento a lungo termine. 

Il caso di Pietralata induce a ipotizzare che la coscienza collettiva localistica non nasca sempre e soltanto da una tradizione culture comune e di lunga data, quanto dall’esperienza di bisogni comuni, il soddisfacimento dei quali implichi il controllo di un territorio e dall’attivarsi di una leadership in grado di organizzare e di rivendicare il soddisfacimento di quei bisogni. 

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Appunti dallo studio di Amalia Signorelli in "Antropologia Culturale" 

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